Home Articoli Rivista Idea «Occorre capire che è una malattia e non un vizio»

«Occorre capire che è una malattia e non un vizio»

Nel suo ultimo libro Umberto Folena ha ben fotografato il fenomeno del gioco d’azzardo

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Alla richiesta di un’opinione (da chiacchiera, non da intervista) in merito alla discussione in atto in Piemonte sulle proposte di legge circa il delicato tema del gioco d’azzardo, la risposta è perentoria: «Non conosco i termini della questione, non mi esprimo». Umberto Fo­lena, giornalista che ha trascorso la propria vita lavorativa scrivendo per il quotidiano “Avvenire” (con cui collabora tutt’ora) è uno che non par­la di ciò che non conosce. Cosa doppiamente meritoria, perché, di riflesso, significa che quando si esprime, lo fa a ragion veduta e con cognizione di causa. Come avviene quando si occupa di ludopatia, tema a cui ha dedicato, insieme alla psicoterapeuta Daniela Capi­tanucci, il libro dal titolo “Per­ché il gioco d’azzardo rovina l’I­talia”.

Folena, perché si è occupato di gioco d’azzardo?
«È un tema al quale “Av­venire” presta grande attenzione, dal momento che il giornale è interessato alla vita reale delle persone e il gioco d’azzardo crea un’e­norme sofferenza nell’esistenza dei singoli, dei loro fa­migliari e della società, determinando un danno economico rilevante».

Approfondendo la conoscenza di quel mondo, da quale aspetto è rimasto colpito in maniera particolare?
«Ciò che va messo in evidenza, a mio avviso, è che l’azzardo non è un vizio, al pari della droga e dell’alcool, per esempio. Chi si rovina con il gioco non è un vizioso che se l’è andata a cercare. Il vizio è una colpa personale di cui il diretto interessato è responsabile pienamente, men­tre il gioco d’azzardo è una malattia: la cura della dipendenza è entrata a far parte dei livelli di assistenza di base, quindi la paghiamo tutti noi».

Se si parla di cura, vuol dire che ci sono dei malati. Quanti e chi sono?
«Si calcola che i malati d’azzardo, quelli con una dipendenza cronica, rappresentino una percentuale che varia tra l’1 e il 3 per cento dei giocatori. Se a questi si aggiungono i problematici, quelli cioè che non hanno il pieno controllo della situazione, si arriva al 15 per cento. Dal che si deduce che l’85 per cento è costituito da “giocatori sociali” che decidono di investire una quantità prestabilita di denaro o di tempo al gioco».

Quindi, se esistesse solo ­l’85 per cento, l’azzardo non creerebbe problemi, giusto?
«No, se fossero tutti “giocatori sociali” non ci sarebbe l’azzardo».

In che senso?
«Nel senso che il 50 per cento delle entrate del mondo dell’azzardo proviene da quel 2 per cento di giocatori patologici, i quali si possono quantificare in circa 800mila-un milione di unità. Va da sé, quindi, che se non ci fossero questi giocatori, l’industria dell’azzardo fallirebbe. La di­pendenza non può essere considerata un effetto collaterale non voluto. Il punto non è proibire l’azzardo, che c’è da quando esiste il mondo, ma fare un passo indietro ed eliminare la pervasività dell’azzardo dalla società, perché tantissimi di coloro i quali sono caduti in quella trap­pola non ci sarebbero ca­scati se l’azzardo non fosse andato a stanarli in luoghi pubblici come bar e tabaccherie».

Il “lockdown” è servito almeno a ridurre gli effetti sui ma­lati di gioco
?
«Sì, perché c’è l’online, ma non è la stessa cosa e i ludopatici in cura ne hanno tratto beneficio. D’altronde, se a un diabetico impedisci di camminare in una via piena di pasticceria è chiaro che qualche risultato in più lo ottieni. Il problema di una dipendenza, comunque, è che non guarisci mai del tutto».

Quindi dopo l’emergenza tornerà a essere più problematica la situazione, nonostante la crisi in cui ci troviamo?
«Nei momenti di crisi il ricorso a questo tipo di pratica è grande. Non a caso, c’è stato un aumento a partire dal 2008 e l’azzardo andava for­te negli anni ’30 in A­me­rica. Quando si vive una situazione di grave insicurezza è più facile che si vada alla ricerca di una qualche forma di dipendenza, che si tratti di sostanze o di oggetti. Il tentativo è di proteggersi creando una bolla, lontano dall’imprevedibilità e dall’aggressività del mondo esterno».

Rimanendo al Covid, ma cambiando soggetto, il post pandemia cambierà il modo della Chiesa di fare la Chiesa?
«Le cose non saranno come prima, questo è certo, ma non si sa come saranno. C’è una forza entropica tipica di tutti i meccanismi complessi e diramati co­me la Chiesa. Si tratta di un disperato tentativo di tornare esattamente come prima ed è una condanna all’irrilevanza, alla routine. La “Chiesa in uscita” di cui Papa Francesco aveva parlato già nel 1996 a Firenze non si vede ancora. Al contrario, tende a rafforzare le proprie fragilissime certezze che consistono nel fare sempre le stesse cose, replicandole all’infinito. È una strategia evidentemente perdente, ma cosa fare in alternativa non è chiaro. Avventurarsi su un terreno insicuro, aggiunge insicurezza a insicurezza. La Chiesa è un organismo complesso: imprimergli anche solo un minimo cambiamento esige uno spaventoso dispendio di energia».