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«All’inizio mi sentivo quasi inadeguata a fare l’attrice»

Monica Guerritore ripercorre la sua straordinaria carriera, ricca di importanti esperienze teatrali, ma non solo (come la parte della madre di Totti in una recente miniserie Sky)

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I fedeli del Festival di Sanremo l’hanno vista accanto ad Achille Lauro che l’ha voluta sul palco dell’Ariston in uno dei suoi quadri più visionari. Lui statua greca, lei sobria Penelope di nero vestita. L’occasione, ampiamente me­diatica, è arrivata prima di rilanciare sulla riapertura dei teatri attraverso un appello diversamente mediatico, affidato ai “social” e all’intraprendenza dei naviganti sul web.
Sanremo in tempi di “lockdown”, dopo mesi lontano dal mondo. Che esperienza è stata?
«Meravigliosa e sconvolgente. Considera che noi attori pri­ma dello spettacolo ci chiudiamo in camerino, concentrati e in silenzio; i cantanti sembravano invece ragazzini impazziti in gita scolastica. Achille Lauro mi si è parato davanti, il corpo nudo, d’oro, bello, alto, dinoccolato. I suoi quadri sono stupendi, firmati da lui in tutti i particolari e le posizioni suggerite sono molto interessanti. È esile, lieve anche nel comportamento, come un filo di paglia».
Un filo di paglia? Una suggestione che arriva da Giorgio Strehler, il suo primo maestro, con cui ha debuttato quindicenne nel ruolo di Anja ne “Il giardino dei ciliegi di Cechov”.
«Strehler ci ha insegnato a entrare nel “mondo di sotto”, come un filo di paglia. Se­guendo la luce e partendo da essa. Il personaggio osserva e segue la luce poi entra nella scena e la scena diventa un mondo».
A Strehler si è ispirata nella regia de “L’anima buona di Sezuan” di Brecht. Uno spettacolo che ha debuttato nel 2019 e che ha riscontrato un gran bel successo, interrotto dalla pandemia…
«Il mio spettacolo è come un diario delle prove del suo allestimento dell’81, che avevo seguito da vicino e che durava quattro ore. Lo vidi due volte di seguito: rimasi folgorata dalla forza interpretativa di Andrea Jonasson e capii la potenza civile e poetica del teatro di Strehler. Avevo ventidue anni e da allora sognavo di portalo in scena».
Si racconta che al teatro sia arrivata per caso, accompagnando un’amica a un provino, e che come da copione invece dell’amica abbiano preso lei. Leggenda o verità?
«Verità. Non volevo fare l’attrice e il mio esordio è stato quasi inconsapevole, ero giovane e mi sentivo inadeguata. Però i grandi temi affrontati dal teatro mi erano vicini at­traverso i libri di avventure, i grandi romanzi, i film, la musica. Sono sempre stata molto suggestionata dalla musica».
Veniamo al sodalizio professionale e sentimentale più lun­go della sua vita e carriera, quello con Gabriele Lavia, che è anche il padre delle sue due figlie.
«Sono stati quindici anni di so­dalizio vero, di teatro creativo sempre condiviso. Lady Macbeth, Ofelia, Signorina Giulia, Ljuba, Marianne sono personaggi fondamentali nel mio percorso. Lavia è un attore molto carnale e la sua im­postazione è strehleriana. Il no­stro incontro è stato naturale».
E poi cos’è successo?
«È successo che mi sentivo stretta in categorie troppo segnate, in caratteristiche o bianche o nere, troppo rigide e definite. La mia maturità interiore, psicologica, affettiva, richiedeva una maggior morbidezza, un’apertura diversa anche verso il pubblico. E l’ho capito bene interpretando Marianne di “Scene da un matrimonio” di Bergman».
Perché, com’è Marianne?
«Marianne, pur essendo un personaggio molto caratterizzato, vive di sfumature, di tanti piccoli pezzetti che sfuggono al tratteggio netto che mi chiedeva Gabriele. Marianne non è tagliata col coltello co­me potrebbe essere Lady Macbeth e io non ho permesso che i tratti virili che vi ravvisava lui, avessero il sopravvento».
È giusto dire che è stato uno spettacolo di svol­ta?
«Sì, la nostra separazione è cominciata da lì, è stata prima di tutto artistica».
Uno dei primi ruoli svincolati dalla “ditta” è stato quello di George Sand.
«Sì, nel 2000, con uno spettacolo prodotto dal Fe­stival Porto Venere Donna, composto di frammenti tratti dalle sue opere, che rievocano i suoi soggiorni a Porto Ve­nere. Si intitola “Romanzo tra quattro sedie”, la drammaturgia è di Donatella Musso e la regia di Oreste Valente».
E subito dopo è avvenuto l’incontro con Giancarlo Sepe, uno dei registi più visionari del nostro teatro, con cui tra l’altro ha fatto una memorabile “Madame Bovary”.
«Con Sepe ho ricominciato a gattonare. Per interpretare Madame Bovary ho studiato moltissimo, persino la fisica subatomica. La Emma di Sepe è un’anima in cammino, che fugge, non confinata in un matrimonio».
A sua figlia Lucia, anch’essa attrice e interprete di Ma­da­me Bovary, ha dato consigli?
«No, Lucia è bravissima e non ne ha bisogno».
Come madre come è stata? È vero che Maria, la sua primogenita, l’ha fatta diventare nonna?
«Sono stata una madre felice di avere avuto due femmine. Non so come avrei fatto con un maschio. E sono felice che sia femmina la piccola Tea che ora ha due anni».
Però ha interpretato la mam­ma di Francesco Totti in “Speravo de morì prima”: come ha fatto?
«Un’esperienza bella e non facile di cui ringrazio il regista Luca Ribuoli. Ho immaginato mamma Fiorella guardando le foto private, facendo attenzione a piccoli gesti e dettagli, pensando a cosa rappresenta nell’immaginario dei tifosi. E il risultato è stato una donna irruente e solare, mai cupa, una sorta di seconda Ilary che frequenta lo stesso parrucchiere, indossa giacche mo­derne per sembrare più giovane, ma tutto con una grande tenerezza e innocenza».

Alessandra Bernocco

BaNNER
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