«Domani dipende da oggi. L’ho capito facendo legna»

Stefania Belmondo è diventata la campionessa che tutti conosciamo anche perché ha imparato dai genitori l’educazione al rispetto e al sacrificio tipica delle sue montagne

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Là dove la Valle Stura alza la voce e la strada deglutisce vertigine e paura prima di immettersi nell’imponente gola delle Barricate, sonnecchia in un angolo la borgata di Pontebernardo, senza dare nell’occhio. Profumo di riserbo e di timidezza, di coraggio e di resistenza. Una pelle giovanile che nasconde rughe di freddo e di tempo, mascherando un odore di fragilità apparente. Di quella che ti colpisce al primo sguardo, ma che sparisce a poco a poco sotto gli schiaffi della fatica. Se davvero siamo ciò che abitiamo, non è un caso che proprio da questo timido abbraccio di pietra e di legno sia nata Stefania Belmondo, lo “scricciolo” dalla forza leonina. Gracile, se osservata con gli occhi; invincibile, se guardata con la testa e con il cuore. L’indole pulita di chi non vuole esibirsi preferendo ri­manere ai margini ad ascoltare e a capire. Questione di carattere, certo, ma anche di educazione al rispetto e al sacrificio. Di perfetta aderenza a quei valori di cultura alpina che Stefania ha sempre rivendicato con orgoglio.
«Mio padre me lo ripeteva spesso: nella vita scegli la strada che preferisci, quella che ti dà più soddisfazioni e che ti rende più appagata. Ma una volta intrapresa non fermarti e non accontentarti mai. Devi essere sempre pronta a faticare, a rialzarti dopo ogni caduta, a imparare dagli errori commessi. Nella mia carriera agonistica non ho fatto altro che applicare alla lettera il suo insegnamento e i risultati raggiunti mi hanno resa doppiamente orgogliosa. Come da piccola, quando andavo con lui a lavorare nei boschi e nei prati».
Stefania, parliamo proprio della sua infanzia. Quanto ha inciso la vita di montagna sul suo carattere?
«Direi moltissimo. Ho appreso l’importanza del sacrificio, della costanza, della regolarità. Una cima, dopotutto, la raggiungi un passo dopo l’altro, poco alla volta. Noi, per esempio, ci scaldavamo soltanto con il fuoco della legna, che bisognava però raccogliere di anno in anno. Tantis­sime volte, allora, ho accompagnato mio padre nel bosco e lì ho capito quanto il nostro obiettivo futuro (il riscaldamento) dipendesse in realtà dalle nostre azioni quotidiane (il fare la legna)».
Erano gli stessi anni in cui sognava di lavorare in macelleria?
(ride, ndr). «Proprio quelli. Il bello del vivere in una piccola comunità, dopotutto, era (ed è ancora oggi) la conoscenza reciproca. Più volte mia mam­ma mi mandava a Pie­traporzio a comprare o a ritirare la carne. Dietro il bancone c’era Guido, un uomo gentile che per me aveva sempre una buona parola. Mi colpirono così tanto il suo sorriso e la sua simpatia che da grande dissi ai miei genitori che mi sarebbe piaciuto gestire la macelleria del paese!».
Ma poi lo sci di fondo ha preso il sopravvento…
«In maniera del tutto inattesa, devo dire. Mio padre mi regalò il primo paio di sci quando avevo quattro anni. Li aveva costruiti lui, rossi e in legno, e cominciai a provarli tutti i gior­ni nel campetto sotto casa. Le prime gare non andarono benissimo, devo dire, ma poco alla volta presi la mano. Mi divertivo e sentivo che mi faceva bene al corpo e alla mente. I miei genitori osservavano dall’esterno, sen­za mai forzarmi e in questo sono stati forse la mia vera fortuna. Quanta malignità o cattiveria ho sentito negli ultimi anni alla partenza o all’arrivo delle gare….»
A proposito di gare, c’è qualche aneddoto che può raccontarci sulle sue prime esperienze agonistiche?
«Beh, due in particolare. A sei anni presi parte alla prima gara vera e propria, alla Festa della Neve di Pratolungo. Non avevo ancora ben capito come funzionasse una competizione, così cominciai a sciare per conto mio. Appena qualcuno da dietro mi urlava “Pista!”, però, io mi facevo da parte e mi fermavo. Puoi ben capire come andò a finire! Il secondo riguarda invece il Giro Sciistico della città di Cuneo del 1980: era il 12 gennaio, c’era un metro di neve e io ero felicissima. Fin dall’inizio mi sentivo in forma e condussi l’intera gara pressoché al comando, finché non vidi una linea rossa a terra. La gente cominciò ad applaudire e io mi fermai convinta di aver vinto, solo che il vero traguardo era qualche decina di metri dopo e così giunsi terza o quarta!».
Ma poi sono arrivate decine di medaglie tra Olimpiadi e Mondiali: quanto e dove si allenava?
«Potrà spaventare qualcuno, ma per allenarmi percorrevo 10.000 chilometri all’anno, spesso proprio qui tra le mie montagne. Sulle piste di Festiona e Bagni di Vinadio, ad esempio, con i passaggi a Baru e a Callieri che mi riempivano ogni volta di emozione. Oppure andando a correre nei pressi di Murenz. Ecco, ancora oggi quando salgo a Murenz, spesso mi fermo a contemplare il paesaggio e mi ritengo davvero fortunata di essere cresciuta in Valle Stura».
Un legame talmente forte, quello con le radici e il territorio, che non si è mai interrotto. Oggi Stefania vive a Demonte e presta servizio al Comando Unità per la Tutela Forestale, Ambientale e A­groalimentare dei Carabinieri di Cuneo, tenendo altresì corsi e seminari nelle scuole incentrati sull’importanza dei valori etici e morali dello sport. Una “seconda alba”, la sua, forse non casuale per una ragazza diventata grande in una borgata che ogni inverno festeggia la Festo dou Tarluc, ovvero il lasso di tempo che il sole impiega per scomparire e ricomparire dietro la Testa dell’Ubac, regalando appunto a Pontebernardo due albe e due tramonti.

Gabriele Gallo