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Generale Bonaparte dopo 200 anni rimane ancora il suo segno

A due secoli da quel celeberrimo 5 maggio le tracce del condottiero francese rimangono evidenti e forti in diversi àmbiti

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Ei fu. Quattro lettere contraddistinguono un personaggio che segnò le sorti dell’Europa per almeno vent’anni. Napoleone Bonaparte fu osteggiato dai leggittimisti e temuto dai nemici, modernizzò in molti ambiti, sia la Francia sia gli stati conquistati. Alcuni progetti “visionari” co­me il sottopasso della Manica non gli riuscirono, ma bisogna riconoscergli la riorganizzazione della macchina amministrativa pubblica e non solo.

Oltre al celeberrimo Codice Civile, promulgò il Codice Penale e il Codice di Com­mer­cio, riformò il catasto, le prefetture, i cimiteri, le scuole e i conservatori; per contro, i giacobini europei passarono dall’osannarlo come riformatore ad odiarlo come tiranno. Senza contare i cosidetti “furti napoleonici” dove, nei trattati di pace, il generale còrso legittimò le spoliazioni di opere d’arte: delle 506 opere d’arte trafugate nella penisola ne tornarono meno della metà.
Lasciando però questi discorsi agli storici, da quel 5 maggio 1821 che cosa è arrivato fino a noi a livello culturale?
I Paesi che lo ospitarono, an­che se proprio ospite gradito magari non fu, lo ricordano ancora oggi.
È il caso del castello di Mombasiglio dove furono stanziate le truppe francesi in occasione della Battaglia di Mondovì, oggi Museo Ge­nerale Bonaparte.
Più leggendaria la storia dell’Albero di Napoleone a Spinetta (Alessandria), vicino al sito della Battaglia di Marengo, la tradizione vuole che il platano fu piantato nel 1800 proprio da Bonaparte.
Enigmatico è il caso di Bobbio Pellice, dove c’è un ponte ad arco in pietra, datato 1640, denominato “Ël pont ëd Na­poleon”: se non altro è l’unico ponte a non aver mai ceduto negli anni alle alluvioni.
Anche a Cherasco c’è un viale Napoleonico, probabilmente chiamato così in suo onore, visto che all’epoca dell’Armi­stizio di Cherasco non esisteva ancora.
Spostandoci di pochi chilometri, da più di duecento anni a Narzole si festeggia la Fiera Napoleonica “indetta dal Generale Napoleone Bona­parte con decreto 22 ottobre 1810”. Ma non è l’unica manifestazione che fonda le radici in quel periodo: il famosissimo carnevale di Ivrea ebbe la prima trascrizione scritta nel 1808 e da allora a guidare la sfilata c’è il Generale di origine napoleonica con il suo seguito. Da un’intervista di Amerigo Vigliermo a Renzo Pessatti, classe 1899, sembra che il prefetto dell’epoca volesse eliminare queste feste in quanto portavano risse tra giovani, allora (forse per l’interessamento dell’imperatore stesso) in quell’edizione fu scelto come responsabile del carnevale un Generale di chiara fede napoleonica, nello specifico il nonno dell’intervistato, An­tonio Pessatti.
Rimanendo nel Canavese, passiamo alla tradizione orale. Tra i primi a documentare il canto epico-lirico ci fu il conte Costantino Nigra, che nel 1888 diede alle stampe “I canti popolari del Piemonte” e in questa raccolta ci sono due canzoni che si riferiscono all’imperatore francese.
La prima è intitolata “I coscritti di Bonaparte” che tratta il tema della coscrizione in Piemonte per combattere a fianco dei francesi; la seconda è “Napoleone” che offre un sunto della disfatta russa, la soddisfazione degli inglesi, il suo esilio e i soldati che festeggiano la fine della guerra. Una versione con testo che cambia dal secondo verso è stata registrata, sempre da Amerigo Vigliermo, nel 1975 a Rueglio e incisa nel 1988 dal Centro Etnologico Cana­vesano. Più fedele alla lezione del Nigra è la canzone del repertorio della Camerata Corale “La Gran­gia”. Disturbiamo quindi il presidente Franco Riolfo e in poco tempo saltano fuori “I canti popolari monferrini” di Giuseppe Ferraro, altro vangelo dell’etnomusicologia. Oltre a una versione più lunga di “Napoleone” intitolata “Dopo la guerra di Russia” troviamo il “Canto contro i francesi” e “La madre del soldato”. Ovvia­men­te, come la maggior parte dei canti epico-lirici, manca la parte musicale.
Nel campo della letteratura l’astigiano Vittorio Alfieri fu testimone oculare della rivoluzione. Da subito fu entusiasta e compose l’ode “A Parigi sbastigliato”, ma quando tastò con mano la ferocia della rivoluzione (fu anche emanato un ordine d’arresto per la sua compagna, la contessa d’Al­ba­ny) scappò da Parigi, gli furono requisiti i suoi libri, ed iniziò le pagine de “Il misogallo”. Avendo però paura di ritorsioni nei confronti dei suoi cari non attaccò mai direttamente Napoleone: solo una volta, dovendo citarlo nella sua opera Vita di Vittorio Alfieri scritto da esso, lo apostrofò Dittator francese.
Per quanto riguarda la letteratura in piemontese, degno di nota è il medico giacobino Edoardo Ignazio Calvo: deluso dai francesi, nelle sue Favole morali non citò mai direttamente il generale d’Ajaccio, ma paragonò i francesi ai sanguisuga che dissanguano il cieco Piemonte (Le sansùe e ‘l bòrgno) ed un intendente di finanza ad un pidocchio (L’intedent e ‘l poj).
Proprio nell’introduzione di questo libro si parla di una traduzione in piemontese de “Il figliol prodigo” (Ël fieul sgairon) del periodo napoleonico e chiedendo lumi al professor Sergio Maria Gilardino arriva una risposta che è una lezione di storia.