Home Articoli Rivista Idea La parabola del figliol prodigo per valutare i vari dialetti

La parabola del figliol prodigo per valutare i vari dialetti

0
212

I censimenti non sono solo e sempre “linguistici”, ma per imperatori e re sapere che lingua o che lingue parlavano i propri popoli era un dato a cui non potevano rinunciare. Se ne è vo­lu­to accertare anche Napoleone Bo­na­parte e poi, in tempi a noi più vicini, è stato indetto un censimento sui territori del neo-costituito Regno d’I­talia (1861), dal quale risultò che me­no di due italiani su cento capivano (leggevano o scrivevano) l’italiano.

Un esame del censimento generale, ma anche linguistico, voluto da Na­poleone all’apogeo della sua gloria, in tutti i Paesi e territori europei da lui invasi e annessi, ci porta però a una constatazione diversa: a differenza di Assuero e di Cesare Au­gusto, che rispettavano le lingue e le deità dei popoli a loro sottoposti, Napoleone mirava a valutare la fattibilità di imporre dovunque il francese. Tanto poi è miope e inane la volontà dei dittatori: il francese era già lingua diplomatica, filosofica, letteraria e culturale di tutta l’Europa colta (se ne vedano le ampie testimonianze nelle pagine di Guerra e pace di Leone Tolstoj) e le sue forzature, in ogni campo, non solo non prendevano radici, ma rischiavano di eradicare quello che spontaneamente era già cresciuto. Così nel 1804 anche in Piemonte, allora parte integrante del territorio nazionale francese, si fece il censimento, che consisteva, tra l’altro, nel fornire una versione della parabola evangelica del Figliuol Prodigo nelle varianti dei moltissimi dialetti locali. In quanto tempo ciò sia stato eseguito, con quali criteri vennero stabilite le isoglosse (i confini entro i quali ogni variante era parlata), quale grafia utilizzare per registrarne “sul campo” le diverse versioni, se erano dettate liberamente, cioè a senso (ricordandosene dalle prediche sentite in chiesa) o tradotte versetto per versetto, non sapremo mai. Pen­siamo di quale incalcolabile valore sarebbe stato un censimento che avesse incluso anche altre storie, fiabe, racconti popolari d’allora: avremmo potuto ricavare conoscenze linguistiche, letterarie e antropologiche molto approfondite. Accon­tentiamoci delle versioni della parabola in questione, di cui forniamo qui l’incipit in tre delle parlate del Piemonte di allora (pagina scaricabile da internet grazie alla Wikipedia an Piemontèis, alla quale dobbiamo tanto, che fornisce anche validissime altre informazioni sullo studio del piemontese):
• Turinèis: “N’òm a l’avìa doi fieuj. Col pì giovo l’ha dit a sò padre: “Deme la parte dij ben che a ‘m toca!” E chiel ëd coj ben a l’ha fane doe part. E da lì a pòchi dì ël fieul pì giovo, butà ansema tut col che a l’avia tirà dij sò ben, a l’é andassne ant un pais leugn, e ambelelà, mnand na vita plandron-a e lussuriosa, a l’ha sgairà soa part”.
• Langhèt: “Un òm o r’avia doi fieui. Ël pì pcit un dì o r’ha dit a sò pare: “Pare, dème ra part ch’a ‘m ven!”. Ël pare, sentend sosì, o r’ha fat ra part e o r’ha daje lo ch’i tocava. Da lì a pòch dì, ‘st fieul r’ha butà tut ër fat sò ansèm e o ‘s n’è andàsne ant un pais lontan motoben, e ansì là o r’ha sgheirà tut an fé ël bagordon”.
• Parlà ëd Coni: “Un òm a l’ha avù doi fieui. E ‘l pì giovo ëd costi l’ha dit al pare: “Pare, deme la mia part!”. E chiel j’ha daje lo ch’a-j tocava. Pas­sà quaich dì, radunasse tut, ël fieul pì giovo s’è partisne da cà pr’ëd pais lontan, e a l’ha mangià ‘l fèit sò ant le ribote”.
Una considerazione sola, tra le moltissime che si potrebbero fare a questo riguardo: quelle e quelli tra di noi che sono di lingua madre piemontese, leggendo la versione a lei o a lui più vicina, potranno constatare come la propria variante di piemontese sia cambiata relativamente poco sull’arco degli ultimi due secoli. E, per una volta tanto, viva Napoleone! Ladro lo sarà stato, ma in questa testimonianza, da lui voluta, abbiamo il regalo di un bel frammento linguistico del nostro passato.