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Italo Zilioli «Il mio più grande rivale? Me stesso»

Uno dei più grandi corridori degli anni Sessanta si racconta: dai duelli con Anquetil, Merckx e Gimondi a quella maglia rosa sempre sfuggita per la troppa pressione, fino ai consigli ai campioni di oggi, come Ganna, e alla sua seconda vita a Ruffia, nella Granda

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Italo Zilioli (nella foto a lato, il primo da destra, con indosso la maglia gialla, insieme a Merckx) è nato a Torino il 24 settembre 1941: corridore professionista dal 1962 al 1976, ha vinto cinque tappe al Giro d’Italia ed è salito per quattro volte sul podio finale senza, tuttavia, aver mai vestito la maglia rosa. Al Tour de France del 1970, invece, si impose nella frazione di Angers e indossò per sei giorni la maglia gialla, per poi chiudere al 13° posto in classifica. Tra gli altri suoi principali successi spiccano il Campionato di Zurigo del 1966, la Settimana Catalana del 1970, la Tirreno-Adriatico del 1971 e numerose classiche italiane: Tre Valli Varesine, Giro dell’Appennino, Giro del Veneto, Giro dell’Emilia, Trofeo Laigueglia, Coppa Sabatini, Coppa Agostoni, Gran Premio di Prato, Giro del Piemonte e Coppa Placci. Prestigioso anche il quinto posto al mondiale di Sallanches nel 1964. Nella sua lunga carriera, Zilioli,che nell’altra pagina è sul palco del Gp del Roero,si è spesso confrontato con alcuni mostri sacri della storia del ciclismo, su tutti Jacques Anquetil, Eddy Merckx e Felice Gimondi

 

Immaginate di essere un giovane cor­ridore di belle speranze che, al se­condo anno da professionista, si trova a lottare per la vittoria del Giro d’Italia contro Jacques Anquetil, proprio ne­lla stagione in cui il fuoriclasse francese si accinge ad entrare definitivamente nella storia diventando il secondo uomo, dopo Coppi, a centrare l’accoppiata con il Tour. Im­maginate poi di trovare sulla vostra strada, negli anni a venire, altri campioni del calibro di Vittorio Adorni, Gianni Motta, Fe­lice Gimondi e, in un crescendo rossiniano, di incrociare le ruote con il “Cannibale” per eccellenza, Eddy Merckx. Non sarebbero tremati i polsi anche a voi?
Questi sono infatti i principali avversari con cui ha dovuto misurarsi Italo Zilioli, uno dei grandi del ciclismo italiano degli anni Ses­santa e dei primi Settanta che, a di­spetto delle tante ed importanti vittorie comunque ottenute, oggi è ricordato so­prattutto per i successi sfiorati, proprio per­­­­ché tradito, spesso, dalla troppa pres­sio­ne. Pros­si­mo agli ottant’anni, che com­pi­rà a settembre, e da più di venti residente proprio in pro­vincia di Cuneo, Zilioli ri­percorre per noi i passaggi principali della sua carriera, provando anche a calarsi nei panni dei cam­pioni moderni.

Zilioli, lei è arrivato per tre volte consecutive secondo al Giro d’Italia, battuto da Anquetil, Adorni e Motta, e poi terzo nel ’69 dietro a Gimondi e Michelotto: ha mai pensato a quante altre corse avrebbe po­tuto vincere, in un’altra epoca?
«No, non sarebbe giusto. In realtà, sono stato proprio io il principale avversario di me stesso: avevo un carattere poco adatto a reggere le responsabilità che derivano dai grandi appuntamenti. Rendevo bene so­lo se attorno avevo persone amiche e condizioni favorevoli, mentre altri avevano la testa per crearsele anche quando non c’era­no, quelle condizioni. E penso a Eddy Merckx, con cui ho corso nel 1970: eravamo compagni di stanza e a lui bastavano sempre cinque minuti per addormentarsi. Ero io quello che stentava a prendere son­no. Diciamo che ero un po’ complicato. Una volta, durante un’intervista, Sergio Za­voli mi disse: “a prima vista non sembra nemmeno adatto al mestiere che fa, eppure questo mestiere lo fa bene”».

Facciamo un passo indietro: come iniziò ad andare in bici?
«Con un amico a 14-15 anni: capii di avere le qualità e così mi iscrissi in una squadra. Alla mia prima corsa, a 17 anni, feci undicesimo e mi galvanizzai, così corsi a comprarmi una bici su misura e, dall’anno do­po, iniziai a fare sul serio. Mi notò Vincenzo Giacotto, storico direttore sportivo della Carpano per la quale aveva corso anche Coppi e che, in quegli anni, era una delle squadre più forti al mondo: mi prese a la­vorare nel suo ufficio a Torino per i due an­ni e mezzo di apprendistato che feci prima di passare professionista, dandomi il tem­po di allenarmi e familiarizzare con la squa­dra. C’erano Franco Balmamion e Ni­no De­filip­pis, piemontesi come me, e un forte gruppo di corridori belgi, fra cui il velocista Van­­nitsen e Alfred De Bruyne, un’autentica leggenda, che già aveva vinto tre Liegi-Bastogne-Liegi, la Milano-Sanremo, il Giro delle Fiandre e la Parigi-Roubaix».

A proposito di Coppi, c’è un aneddoto che la lega proprio al “Campionissimo” e a Canale, non è vero?
«Sì, da “allievo” corsi una gara in notturna a cui aveva dato il via proprio Coppi: io la vinsi ma, al momento delle premiazioni, Fausto era già andato via, credo a visitare una cantina. Ma non ci rimasi male, anche a me sarebbe poi successo di presenziare alla partenza di una corsa di ragazzi senza attenderne la conclusione: capita quando hai diversi appuntamenti da rispettare nella stessa giornata».

Il suo esordio fu bruciante, subito vincente. E poi?
«Avevo debuttato sul finire del 1962 al Giro dell’Appennino, corsa che sentivo molto per­ché adatta alle mie caratteristiche e per­ché era ancora vivo il ricordo dell’ultima grande impresa di Coppi nel ’55, così andai subito all’attacco, ma caddi e mi ri­pre­sero. Mi rifeci l’anno dopo, vincendola in quella che era la mia prima stagione in­tera da professionista. In poche settimane vinsi anche Tre Valli Varesine, Giro del Ve­neto ed Emilia. Quella che era iniziata co­me una semplice passione era ormai di­ventata la mia professione. Presto, però, il ci­clismo avrebbe iniziato a chiedermi trop­po, e allora il gioco avrebbe smesso di divertirmi».

Forse se fosse riuscito a vestire almeno una volta la maglia rosa, che incredibilmente le è sempre sfuggita, si sarebbe potuto sbloccare psicologicamente?
«È possibile, chissà, ma in fondo credo che uno arrivi sempre ad esprimere quello che vale realmente. Certo, la maglia rosa la in­seguivo, come d’altra parte inseguivo an­che altre maglie forse ancora più grandi: la maglia gialla, che ho indossato nel ’70, e quella iridata. E poi la maglia tricolore: ho perso un Campionato Italiano da Dancelli per pochi centimetri, e per tutto l’inverno successivo ho sognato, ogni notte, quel tra­guardo che non arrivava mai. Era diventato un incubo. Io andavo forte, ma pativo le corse più importanti. E non era una questione di avversari, perché in quegli anni c’erano tutti anche alle classiche italiane, che spesso vincevo. L’avversario vero, ripeto, era sempre lì, nella mia testa: per questo non sono mai riuscito a vincere un Lombardia o una Liegi, e non perché contro di me ci fossero Gimondi o Merckx».

Si riconosce in ragazzi come Evenepoel, Gan­na o Bernal, protagonisti attesi al pros­­­simo Giro e, come lei, risultati già vin­centi nei primi anni da professionisti?
«Diciamo che in ragazzi come loro vedo un ritorno all’antico, cioè a quando, se avevi le qualità, emergevi presto: una tendenza che negli ultimi anni si era un po’ persa mentre, ai miei tempi, era piuttosto normale. Oltre a me, anche gli stessi Defilippis e Balma­mion erano stati molto precoci, in particolare quest’ultimo, che a 23 anni aveva già vinto due Giri d’Italia».

Quali consigli si sente di dare a questi giovani?
«Di rimanere sempre con i piedi per terra, ma questo vale soprattutto per chi sta loro attorno: direttori sportivi, sponsor, giornalisti, tifosi. Anche se molti giovani ci stanno abituando bene, evitiamo di aspettarci su­bito i risultati ad ogni costo. Prendiamo, ad esempio, proprio Filippo Ganna: ha già di­mostrato il suo enorme valore e nelle pro­ve contro il tempo è una garanzia assoluta, sicuramente tiferò per lui nella tappa di Torino e spero che vesta la prima maglia rosa anche quest’anno. Ma non chiediamogli di vincere il Giro: le grandi gare a tappe potrebbero anche non essere il suo sbocco naturale, lasciamo che trovi da solo la sua strada. Lo stesso vale per Evenepoel: molti lo accostano a Merckx e indubbiamente ha un motore fuori dal comune, ma un conto è presentarsi come ha fatto lui, un altro è confermarsi, ed è proprio adesso che viene il difficile».

E oggi cosa fa Italo Zilioli? Va ancora in bicicletta?
«Sì, faccio quelle che chiamo le “pedalate del­­la salute”, uscite di 30-40 chilometri vi­cino a casa. Da oltre vent’anni mi sono trasferito proprio in provincia di Cuneo, a Ruf­­fia, il pae­­se di mia moglie, poche case in mezzo alle colline. E non vedo l’ora che co­­minci il Giro, soprattutto per questa “gran­­de partenza” che toccherà Torino, la mia città na­tale, e la Granda, in cui vivo».

Articolo a cura di Marco Gaviglio