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«Quella volta ad Alba con l’amico Serrat…»

Il giornalista torinese Gianni Minà racconta diversi aneddoti della sua incredibile carriera

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«Pronto, Minà?». Inizia banalmente così la no­­stra conversazione telefonica con un giornalista che è tutt’altro che banale. Del resto, non sapremmo come al­tri­men­ti esordire. Ci pa­re im­pos­sibile che dietro a quel numero di telefono fisso, recuperato grazie a un articolato lavoro di squadra, ci sia davvero lui: Gian­ni Minà, indiscusso mae­stro del giornalismo italiano. Se il garbo con cui ci risponde è quello che abbiamo potuto a lungo apprezzare seguendolo in tivù, a sgombrare il cam­po dagli ultimi dubbi sono le sue ri­spo­ste: sem­plici, dirette ma so­prat­tutto cariche di un’umanità e di una profondità uniche. Le qualità che lo hanno reso amato in tutto il mondo.

Minà, prima di tutto, le portiamo i saluti del suo Piemonte e di Alba. Conosce la “capitale delle Langhe”?
«Certo, a quella città è peraltro legato un piacevole ricordo…».

Ora siamo curiosi…
«Visitai Alba con il cantautore Ser­­rat; è stato penso l’unico viag­gio di piacere che mi sono concesso con mia moglie… Joan Manuel (Serrat) è pazzo per i tartufi e, approfittando di uno stop dai suoi concerti, facemmo, con le nostre rispettive mogli, una pazzia di due giorni: godere del frutto meraviglioso di quella città unica e adorabile che è Alba».

A questo punto, ci tolga un’ulteriore curiosità: lei, che è nato a Torino, ma che ormai vive a Ro­ma e che, peraltro, è stato no­­minato cittadino onorario di Na­poli, si sen­te più torinese, ro­ma­no op­pure napoletano?
«Mi sento un cittadino del mon­do, mi sento una parte attiva del popolo del Sud del mondo».

Sicuramente, scusi se insisto sul Piemonte, si sentirà anche un po’ torinista…
«Il Torino non è solo una passione, ma una fede. Granata, ap­pun­to».

All’ombra della Mole cosa l’ha spinta a intraprendere la strada del giornalismo?
«Fin da ragazzino, a Torino, do­ve appunto abitavo, ero un ap­passionato di ciclismo e ovvia­men­te di calcio. Quando iniziava il Giro d’Ita­­lia stavo incollato alla radio, prendevo tutti tempi dei nostri campioni e poi buttavo giù dalla finestra i “pizzini” ai miei amici, per dare “in diretta” le posizioni dei nostri beniamini».

Cosa significa essere giornalisti?
«I miei maestri Barendson, Ghi­relli e Zavoli mi hanno insegnato che la professione di giornalista è un dovere civico, un po’ come il Carabiniere, il farmacista o il prete del paese. Infor­ma­re, far conoscere, è importante, soprattutto quando non si ave­vano opportunità di viaggio per conoscere il mondo».

Cosa pensa del giornalismo “ur­lato” e “aggressivo” di oggi?
«Il giornalismo come lo concepisco io non c’è più da tempo. Oggi l’agenda la impongono la pubblicità e un sistema economico che si è impossessato delle piattaforme tecnologiche, da cui ormai passa tutto. È una evoluzione (o involuzione, ma questo lo possono dire i sociologi) irreversibile».

Ci parli del suo stile. Ha sempre cercato di raccontare la verità in modo oggettivo e di onorare l’in­terlocutore, ascol­tan­dolo, dan­­dogli spazio e ri­spettando la sua dignità, senza ri­nunciare al­le emozioni e al­l’ironia. Si sen­­te un rivoluzionario?
«Non è uno stile rivoluzionario, era, come dicevo prima, la nor­ma. Nei servizi del telegiornale, ad esempio, era vietato dall’a­zien­da comparire. Bisognava da­re spazio totale a chi si stava in­tervistando e descrivere il più possibile, nei tempi di un servizio o di un articolo, il mondo in cui viveva la persona (o il fatto) da raccontare».

A proposito, come ha fatto a guadagnarsi la fiducia delle più grandi personalità del pianeta?
«Rispettandole».

Dopo l’intervista, come gestiva il rapporto che si creava?
«È nata quasi sempre un’amicizia, un legame forte tra me e lo­ro, in maniera naturale. Cono­scen­do una persona (a me non piace parlare di “personaggio”) si co­nosceva il suo mondo, le sue relazioni, le sue amicizie che inevitabilmente si intrecciavano con le mie relazioni e amicizie. Dal punto di vista affettivo e cul­tu­rale, è stato impagabile e unico».

Tutti quei numeri di telefono come li recuperava?

«Bisogna pensare che all’epoca non c’erano gli smartphone, i computer, Internet, c’era solo il telefono fisso. Per cui se volevi rintracciare una persona dovevi affidarti a lui e alla rete degli ami­ci che stavano nel luogo di chi si voleva intervistare».

Ha ancora le famose agendine su cui annotava quei numeri?

«Sì, ho tutte le agende che hanno scandito la mia vita».

Ha qualche rimpianto relativamente alla sua carriera?

«Non aver intervistato Nelson Mandela. Prima ho rimandato io, poi lui, poi io. Errore imperdonabile».

La gaffe più grossa, se mai c’è stata…

«Aver abbracciato il Dalai Lama, in un impeto di eccessivo entusiasmo. È vietato toccare Sua San­tità. Ma lui, sorridendo, ha ri­sposto al mio abbraccio».

Amico fraterno di Maradona, ha intervistato e conosciuto anche Muhammad Alì e Fidel Castro. Il suo ricordo.
«Due persone straordinariamente intelligenti. Un ricordo divertente fu quando Alì venne invitato da Castro all’Avana per parlare di politica internazionale e il battaglione di giornalisti nordamericani e occidentali non si accorse di nulla».

Lei e il Sud America. Da dove nasce la sua vicinanza ai più deboli e al Sud del mondo?

«Perché girando per il mondo ho visto la miseria, ben più tragica della povertà che per fortuna noi, qui in Italia, non conosciamo. Ho visto la fratellanza negli occhi dei bambini di strada del Brasile, che si spartivano poco cibo in trenta senza litigare, o nei profughi del Guatemala ammassati lungo le frontiere del Chia­pas. La cosa che ancora mi commuove, ma che mi fa tenere la barra ben salda, è stata la solidarietà di quella povera gente che non aveva nulla da mangiare, eppure quel nulla lo vollero dividere con me e la mia troupe. Fu un gesto di rara solidarietà».

Come si annullano le ingiustizie sociali?

«Papa Francesco, su questo te­ma, sta usando parole che arrivano dritte al segno. Le ingiustizie si annullano soprattutto non voltandosi dall’altra parte».

È questo il senso della vita che ciascuno di noi è chiamato a cogliere?
«Penso che il senso della vita si traduca in un equilibrio (che io ho colto a volte, ma non sempre) tra l’amor proprio e i bisogni del­la gente, sia di chi sta vicino a noi (famiglia, poveri, vicino di ca­sa…) sia di chi ci ospita (la na­tu­ra) e a cui, ancora, non abbiamo pagato il conto con, almeno, il rispetto per le risorse che ci ha sempre dato generosamente».

Dopo un’intera esistenza trascorsa a scoprire e raccontare il mondo e i suoi protagonisti, che giudizio si sente di dare alla sua vita?
«Ho quasi 83 anni, la mia salute è malferma perché ho voluto con­sumare il mio corpo e la mia mente “mangiando” il mondo, mai sazio. Quindi, come ha sempre detto Muhammad Alì, anche se ho una salute malferma, sto al pari con la vita. Oggi viviamo un processo di transizione: le ideologie sono tramontate, un sistema economico liberista ha preso il sopravvento su tutti noi, mol­ti, troppi, sono diventati schia­vi del click; per cui penso che dobbiamo rifarci alle parole del mio amico Luis Sepulveda: bisogna af­frontare una idea di progresso che non si basi sulla velocità, ma, aggiungo io, si basi sul rapporto di cura delle genti, della natura e degli esseri viventi».