Tra due mesi fa sessanta tondi tondi. Quarant’anni sulla scena: tondi tondi pure quelli. Perché Massimo Popolizio ha incominciato ancora prima della gavetta. Persino prima di fare il suo ingresso all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico dove lo scoprì Luca Ronconi, regista sommo del teatro italiano, per trattenerlo a sé per qualcosa come vent’anni anni e trentacinque spettacoli. Più o meno, ma forse più. Ruoli primari fin dall’inizio, impegnativi, faticosi. Spettacoli lunghi ore e ore, come il shakespeariano “Misura per misura” o “Lo strano interludio di Eugene O’Neill”. Premi ufficiali e riconoscimenti ufficiosi, è un attore dalla cifra particolarissima, versatile, duttile, con una padronanza assoluta della voce e del corpo, che ha sempre messo tutti d’accordo, critica e pubblico, rapiti nel tributargli un consenso obiettivo, fondato sul merito e non su scelte ammiccanti o strategiche. Chi frequenta il teatro sa bene che Popolizio è una certezza, chi non lo frequenta sta imparando a conoscerlo attraverso il cinema d’autore che finalmente si è accorto che gli attori di prosa sono una garanzia anche sul set. È servito un po’ di tempo ma vivaddio ci siamo arrivati. Nel frattempo lunghe tournée in giro per l’Italia (e non solo), e quel poco che resta diviso tra la sua casa di Roma e quella di elezione, nella campagna umbra, dove ama appartarsi con la sua compagna e coltivare rose bianche e ulivi. I suoi fan sanno che colleziona conchiglie e ne possiede una quantità smisurata, che è un lettore vorace oltreché interprete di numerosissimi classici in audiolibro, che ama il jazz ma si è fatto l’orecchio ascoltando le arie d’opera classica di cui era appassionata la madre. Lavora come un matto e come gli artisti più puri non si accontenta. Qualcuno lo considera alla stregua di un panda in via di estinzione e lui ci sta. «Sono un panda», ebbe a dire quando ritirò l’ennesimo premio sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano, un Ubu come miglior attore protagonista per Lehman Trilogy, l’ultimo spettacolo di Ronconi che dopo un fisiologico “standby” per entrambi, lo rivolle con sé. E, immancabilmente, fu di nuovo trionfo.
Articolo a cura di Alessandra Bernocco