Nell’intervista che ci aveva concesso a novembre, Giovanni Di Perri, direttore della struttura Malattie Infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia, a Torino, e componente della “task force” regionale per l’emergenza Covid, si era detto relativamente ottimista sul ritorno alla normalità, a patto che fossero arrivati i vaccini e che si fossero moltiplicate le possibilità per effettuare tamponi rapidi. A sei mesi di distanza lo abbiamo ricontattato per fare il punto.
Professor Di Perri, ora i vaccini ci sono. Ma sono sufficienti per la nostra regione?
«Il nocciolo della questione è proprio quello: ora che la macchina regionale è oliata, ed è riuscita addirittura a inoculare 40mila dosi in un solo giorno, sarà indispensabile poter contare su forniture di vaccini adeguate. Lo sforzo di tutti va in quella direzione, ma l’incognita resta».
Quali vaccini vengono somministrati in questo momento in Piemonte?
«Pfizer, Moderna, AstraZeneca e Johnson&Johnson. Quest’ultimo, introdotto di recente, richiede, a differenza degli altri, una sola inoculazione. Si sta inoltre procedendo alla sperimentazione del vaccino italiano Reithera».
AstraZeneca e Johnson&Johnson sono finiti più volte nell’occhio del ciclone. Presentano rischi?
«No. Da uno a quattro pazienti su un milione, in particolar modo donne di media età, potrebbero sviluppare rare forme di trombosi venose profonde. Ma c’è un aspetto che ha contribuito a creare disorientamento sul vaccino AstraZeneca…».
Quale?
«AstraZeneca, all’inizio, veniva raccomandato per pazienti al di sotto dei 55 anni; in seguito, è stato indicato per gli “over 60”: questo cambio di “approccio” non è casuale, ma frutto dell’esperienza acquisita “sul campo” durante le vaccinazioni. Nelle sperimentazioni propedeutiche all’ottenimento delle autorizzazioni del caso, invece, era stato preso in considerazione un campione di pazienti relativamente troppo giovane e, quindi, non si disponeva di informazioni sufficienti circa eventuali effetti collaterali del vaccino in persone di età superiore ai 55 anni».
E per quanto riguarda l’efficacia dei vaccini attualmente utilizzati?
«Detto che è improprio mettere a confronto vaccini e studi effettuati in condizioni e con variabili differenti, stando ai casi di cui ci stiamo occupando, riteniamo che tutti i vaccini che stiamo utilizzando garantiscano pressoché lo stesso grado di efficacia, ovvero assicurino un’immunità simile a quella che si raggiunge sviluppando la malattia».
I vaccinati quante possibilità hanno di contrarre il Covid?
«In base alla mia esperienza, posso affermare che rischia di infettarsi appena l’1,5 per cento dei vaccinati. Questi pazienti, peraltro, in caso di infezione, mostrano pochi sintomi o, addirittura, nessuno. Inoltre, risultano poco contagiosi perché presentano in gola una concentrazione di virus inferiore rispetto a quella che potrebbero riscontrare senza vaccino».
E gli anticorpi di chi ha già contratto il virus quanto sono resistenti?
«L’organismo di chi è stato positivo al Covid presenta anticorpi per almeno 7 mesi dall’infezione».
La popolazione giovane, che ha mostrato più resistenza al virus, va vaccinata?
«Assolutamente sì. Bambini, ragazzi e giovani, generalmente, non si ammalano gravemente in seguito ad infezione da Covid, ma sono comunque dei possibili “portatori”. Per evitare che il coronavirus continui a circolare e creare nuove varianti, è opportuno vaccinare anche loro. Proprio in questi giorni, Pfizer sta completando la sperimentazione del vaccino per i giovani di età compresa tra i 12 e i 18 anni».
Detto della prevenzione, quali sono invece gli sviluppi per quanto concerne le cure?
«All’inizio il Covid si manifesta come una malattia infettiva, poi diventa una patologia infiammatoria. Alla luce di ciò, è necessario intervenire prima che la situazione si aggravi, ovvero entro i primi 5-10 giorni. Due le “vie”: gli anticorpi monoclonali e i farmaci antivirali. I primi vengono somministrati, non appena riscontrata la malattia, a pazienti fragili, segnalati dalle strutture di medicina territoriale. L’obiettivo è fornire loro in tempi utili gli anticorpi che, altrimenti, il corpo riuscirebbe a produrre solo dopo una decina di giorni e, quindi, troppo tardi».
E i farmaci?
«Pfizer sta sperimentando una compressa antivirale che, però, non ha ancora consistenza scientifica. Nelle nostre strutture, siamo all’ultima fase di sperimentazione del Molnupinavir di Msd e dell’At/527 di Roche, medicinali che dovrebbero rallentare la replicazione del virus».
Nel frattempo, che fare?
«Tanti vaccini. E consentire a chi è vaccinato, a chi è già guarito o a chi dimostra, eseguendo un tampone, la propria negatività di tornare nei locali e di partecipare alle varie attività. Sarebbe un modo per sostenere l’economia».