«Con la mascherina la mia voce poco canonica è d’aiuto»

Con acume e ironia Veronica Pivetti ripercorre alcune tappe di una carriera ricca e variegata

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L’appuntamento telefonico è per il giorno successivo alla trasmissione di cui è ospite fissa, “Le parole della settimana”, il programma condotto da Massimo Gramellini su Rai 3 il sabato sera. Ogni sabato una nuova parola, ogni volta una piccola grande storia che sollecita e invita a riflettere.

Veronica, quanto la riguarda la parola “rassegnazione” scel­­­ta da lei questa settimana?
«Non c’è parola più lontana da me. Ma non si tratta infatti della mia rassegnazione. Si tratta di un fenomeno cupo e dirompente che racconta la vi­ta di adesso. Anzi, la “non vita” di bambini e adolescenti che si sottraggono alla vita. Si mettono in “stand-by” so­spendendo ogni contatto con la vita. Non c’entra il suicidio, non è nemmeno l’autoesclusione sociale identificata in Giappone e chiamata hikikomori. È proprio uno stato di sottrazione dalla vita, non solo dalla società. Si sta verificando in Svezia, tra i figli degli immigrati, ragazzi accuditi e assistiti da genitori disperati. Io l’ho appreso da un impressionante documentario su Netflix. La storia che ho raccontato in trasmissione ha avuto un buon fine, ma le altre?».

Già, le altre. Mi dice una pa­ro­la che faccia luce sulle al­tre?
«Gliene dico tre: accoglienza, accoglienza, accoglienza».

Grazie, mi ha sollevato il mo­rale. Adesso mi racconti un suo ricordo di Gigi Proietti. Do­potutto è stata la moglie del Maresciallo Rocca per ben tre serie…

«Una spanna sopra. Ma come tutti i grandi, all’insegna della normalità. Complesso per la sua bravura e semplice e diretto nella quotidianità».

Un aneddoto?
«Proietti era un attore, sempre. Nel senso che esercitava il mestiere dell’attore anche fuori dal palcoscenico e dal set. Non era un egocentrico, ma il piacere di comunicare era più forte di lui. Aveva una capacità eccezionale di raccontare barzellette e un repertorio inesauribile. Ma era in grado di raccontarti anche dieci volte la stessa e tu ridevi e rideva pure lui».

Ha avuto timore nel raccogliere l’eredità di Stefania Sandrelli che l’ha preceduta nel ruolo?
«La Sandrelli era certamente un’eredità importante perché è un’attrice amatissima, di grande calibro, ma io non l’ho sostituita, sono subentrata come personaggio diverso, seconda moglie del maresciallo. E poi siamo talmente diverse che non ha senso il confronto».

Continuando con i grandi ca­libri, ha lavorato con Lina Wertmuller interpretando una parrucchiera leghista nel film “Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica”. Ha preso ispirazione in famiglia?
«Chiunque abbia visto il film sa bene che non può essere così. Come attrice ho pescato dall’unica persona che in quel caso mi interessava che era Lina. È stato un incontro formativo sotto tutti gli aspetti, perché quando incontri persone così, qualunque cosa ti dicano ti serve».

E lei cosa le diceva?
«Che sono un cavallino che va lasciato libero. Mi ha fatto capire che tipo di attrice sono e lo sapeva lei meglio di me».

Invece come si comporterebbe la prof Camilla di “Provaci ancora prof” in Dad?
«Si inventerebbe di sicuro un modo per renderla accattivante».

Una parola che piacerebbe alla prof Camilla?
«Mah, empatia, futuro, curiosità. Le parole servono tutte, purché inserite nel giusto contesto. È sciocco privarsi persino di una brutta parola».

Empatia è una parola molto abusata, non crede?
«Sì, ma non è colpa della parola in sé: è colpa di chi ne abusa».

Cosa pensa dei social e del linguaggio usato sul web?
«Sono guardinga nei confronti dei social, il linguaggio è appiattito, impoverito. Anche in televisione si sentono spesso politici e persone con ruoli di riferimento che arrancano con quattro vocaboli. Ma la proprietà di linguaggio è fondamentale e il dibattito, che non è affatto parola desueta, è alla base della civiltà».

A proposito di civiltà, veniamo al teatro. Ha concluso la tournée di uno spettacolo dove ha riscosso un grande successo personale, “Viktor und Viktoria”, commedia mu­sicale ambientata nella Re­pubblica di Weimar dove in­terpreta una cantante che a sua volta interpreterà un “en travesti”.

«Un ruolo bellissimo e molto impegnativo, una grande palestra anche dal punto di vista fisico. I travestimenti dietro le quinte a velocità impressionante, le relazioni sempre diverse con gli altri personaggi. All’inizio pensavo che non ce l’avrei mai fatta poi l’ingranaggio è partito e lo spettacolo è diventato una macchina perfetta, ma nuova ogni sera, e con niente di meccanico».

In teatro ha interpretato an­che la morte: un bel coraggio…
«“Lady Mortaccia” è stata una scommessa vinta. Quasi una commissione a Giovanna Gra, autrice con cui collaboro spesso, e ne è nata questa operina completamente cantata dove la morte viene scandagliata e aggredita e nella quale abbiamo cercato di essere più forti di lei. Uno spettacolo che non le manda a dire e che purtroppo molti teatri non hanno voluto».

Davvero? Per quale ragione?

«Per il vecchio pregiudizio per cui il teatro deve essere tranquillizzante. Invece io penso proprio il contrario, ovvero che il teatro debba anche provocare. Chi viene a teatro è bene se ne esce diverso, scosso, modificato».

Torniamo al cinema passando attraverso la provocazione. Ha diretto il film “Né Giulietta né Romeo”, che af­fronta il tema dell’omosessualità, presentato al Giffoni Film Festival nel 2015. Cosa pensa della legge Zan?
«Penso che sarebbe ora che passasse, una volta per tutte. Penso che non ha più senso rimandare. Né dire che la questione non ci riguarda. Ci sono in ballo questioni che ci riguardano tutti per il solo fatto che sono questioni che riguardano la società in cui tutti viviamo».

Non posso non chiederle un flash su Carlo Verdone e “Viaggi di nozze”.

«Il primo film della mia vita. Mi ha insegnato a stare sul set regalandomi un ruolo bellissimo. Ma soprattutto voglio dire che è un regista e una persona che sa mettere gli attori a loro agio. E se sono qui a parlare con lei lo devo a lui. Prima di allora avevo fatto solo doppiaggio».

Ecco appunto, parliamo della voce, una voce particolare la sua.

«Col doppiaggio, che ho fatto fin da bambina doppiando anche molti cartoni animati, non capivo bene che voce fosse la mia. L’ho capito meglio con la televisione e col cinema e l’ho accettata. Non è canonica ma mi piace che sia così particolare, riconoscibile. Ora che dobbiamo portare la mascherina mi riconoscono dalla voce»

Articolo a cura di Alessandra Bernocco