Professor Veronesi, partiamo dall’attualità. In che misura il Covid ha condizionato le vostre attività di ricerca e, in generale, la diagnosi dei tumori? Quali saranno le conseguenze nel medio-lungo periodo?
«La nostra attività di ricerca in realtà non si è mai fermata, anzi l’abbiamo ampliata nella direzione di questa pandemia, per valutare l’impatto avuto dal Covid sulle patologie oncologiche. Le attività sono state ridotte, però la ricerca scientifica in generale non è stata inferiore, anzi superiore agli anni precedenti. C’è stato invece un impatto sulla diagnosi dei tumori: nel primo “lockdown” tutte le pazienti hanno abbandonato le attività di prevenzione, anche gli “screening” per i tumori alla mammella e al colon; quelli su base regionale, sono rimasti bloccati per mesi e la ripresa è ancora lenta. Dobbiamo prevedere che davanti a diagnosi più avanzate di malattia e con possibilità di cure inferiori la mortalità nei prossimi anni sarà probabilmente maggiore».
Il Covid, forse, un merito lo ha avuto: accendere i riflettori sull’importanza della ricerca scientifica. Cosa deve cambiare nel nostro Paese su questo fronte?
«Deve cambiare la portata degli investimenti. Come Fondazione abbiamo fatto un manifesto perché in ricerca e sviluppo ci siano aumenti. Qui l’Italia è fanalino di coda con investimenti di appena l’1,3% del Pil, mentre la media nella Comunità Europea è del 3% e questo al netto dei fondi pubblici e del contributo di enti del Terzo Settore come la nostra Fondazione».
Anche nell’ambito della ricerca e della prevenzione, suo padre Umberto è stato lungimirante. Qual è l’insegnamento da lui ricevuto che la ispira maggiormente?
«Non fermarsi mai. Quando concludeva uno studio, tutti dicevano: finalmente, ce l’abbiamo fatta! Lui ribatteva: no, questa è solo una partenza, ora vediamo cosa possiamo fare di diverso. Continuava la sua sfida, non si fermava al risultato della ricerca: era la base per un’altra ricerca. Tutto faticoso ma di grande stimolo perché la ricerca non si deve mai fermare. Anche quando si raggiungono risultati definitivi, si può sempre andare oltre con una nuova prospettiva. Questo ha cambiato la terapia di tanti tumori».
Lungimirante è stata anche la scelta di costituire la Fondazione che, oggi, riveste un ruolo di primo piano nell’ambito del progresso scientifico. Questo grazie anche alla collaborazione di diversi partner, tra cui Fondazione Ferrero e alcune aziende, anche del Cuneese. Quali sono i frutti di questa sinergia?
«Da tantissimi anni collaboriamo con fondazioni e aziende attive anche nella filiera alimentare e realizziamo progetti interessanti, sia all’interno delle aziende per tutti i dipendenti nella prevenzione primaria e secondaria, sia all’esterno, ad esempio con il “bollino” della Fondazione, applicato su alimenti sani che rientrano in uno stile di vita corretto che, ad oggi, resta la miglior arma in termini di prevenzione assieme a un’alimentazione corretta e all’attività fisica. Seguire anche solo queste linee permette già di prevenire il trenta per cento delle attività tumorali. Con le aziende poi collaboriamo ogni anno con centinaia di borse di ricerca per giovani ricercatori, per mantenerli nel nostro Paese, abbiamo un sistema universitario di eccellenza che forma ricercatori di altissimo livello. Ma abbiamo grandissime difficoltà per la carenza di fondi, tanto che i giovani laureati sono attratti da proposte di altre nazioni dove ovviamente sono ricercatissimi, sono i primi al mondo. Possiamo invertire questa migrazione fornendo i mezzi per andare avanti, con borse da 4 milioni all’anno».
Citavamo la Fondazione Ferrero: qual è il suo personale rapporto con questa realtà e, più in generale, con il territorio di Alba, delle Langhe e della provincia di Cuneo?
«Non sono mai stato ad Alba ma sono legato da una grande amicizia con il dottor Ettore Bologna e conosco la bellissima famiglia Ferrero. Ci sono poi altre aziende come Life, Balocco o Fiorentini, tutte della filiera alimentare. Con loro sosteniamo progetti dedicati all’alimentazione, ormai la nostra Fondazione è conosciuta e apprezzata, speriamo di ampliare i rapporti».
In generale, quali sono le prospettive nell’ambito della diagnosi e della cura delle malattie oncologiche femminili?
«Sarà un po’ un tema della conferenza in programma presso la Fondazione Ferrero. Le donne sono più “fortunate” perché soggette a tumori più frequenti ma anche più prevedibili. Il tumore alla mammella è il più diffuso in tutto mondo occidentale in assoluto, con 55mila donne interessate in Italia all’anno. Importanti anche i temi di prevenzione in altre neoplasie. Il tumore alla mammella oggi prevede tante possibilità di soluzione anche con terapie mirate e questo negli ultimi decenni ha portato a una migliore guaribilità, assieme alle diagnosi che aumentano sempre più».
La Fondazione ha già raggiunto grandi traguardi. Qual è il prossimo obiettivo che si pone?
«Gli obiettivi sono tanti, naturalmente, nonostante le difficoltà incontrate nell’ultimo anno per raccogliere fondi e mantenere l’impegno di fornire un sostegno ai ricercatori. Abbiamo anche lavorato a una prima campagna nella lotta contro il fumo di sigarette che oggi in Italia causa 90mila vittime ogni anno. Siamo a livelli quasi di Covid e le istituzioni devono fare qualcosa. Noi abbiamo proposto di raddoppiare il prezzo delle sigarette come avvenuto in altri Paesi perché si è visto che lì sono diminuiti i numeri del fenomeno. E perché porterebbe anche più risorse per la prevenzione e la cura di malattie che costano una fortuna: circa 26 miliardi di euro all’anno, questo il costo delle patologie legate ai tabacchi. E poi resta l’impegno contro i tumori femminili su cui bisogna investire tanto in ricerca e comunicazione».