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«Cantando Luigi Tenco omaggio la mia infanzia»

Ginevra Di Marco è tra le più grandi interpreti del panorama italiano. «Sono molto severa con le intenzioni e attenta alla verità di quello che sento»

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«Alba mi è rimasta nel cuore per il concerto che facemmo con i Csi esattamente 25 anni fa e da cui nacque il disco “La terra, la guerra, una questione privata”, dedicato a Beppe Fenoglio. A quel luogo sono legati ricordi indelebili e meravigliosi. Ri­partire a fare musica dal vivo proprio da lì mi è sembrata una coincidenza fortunata, che mi lascia bei pensieri». Così esordisce nella conversazione con IDEA Ginevra Di Marco, una delle voci più belle e delle menti più aperte del panorama musicale italiano. Un abbrivio di chiacchierata che lascia intuire lo spirito con cui l’artista toscana si appresta a salire sul pal­co albese (del concerto, in programma il 22 maggio, parliamo nel box sopra, ndr).

Ginevra, il concerto che terrà ad Alba, così come il suo ultimo disco, è dedicato all’interpretazione dei brani di Luigi Tenco. A cosa si deve la scelta di questo autore?

«Con le sue canzoni sono nata e cresciuta, i suoi testi fanno parte di un “imprinting” avuto molto presto. Poi succede che passi adolescenza e giovinezza cercando di cambiare vestito rispetto a quello che ti hanno cucito addosso, di fare altre e­spe­rien­ze. Con l’avanzare dell’età, ti riguardi indietro e riscopri di che pasta sei fatto. Cantare Tenco, oltre ad avere valenza artistica, è stato un riappacificarmi con la mia famiglia e la mia storia».

Reinterpretando canzoni di altri si rischia sempre di sembrare o troppo uguale o troppo diverso. Non crede?
«È un esercizio molto interessante, ma anche difficile. Io arrivo alla decisione di restituire una mia interpretazione nel momento in cui sento che quelle canzoni mi hanno e­mozionato. Poi c’è un gioco di equilibri, perché è importante fare proprie le canzoni, non ripeterle pedissequamente, perché non avrebbe senso, ma, allo stesso tempo, interpretando occorre tener conto delle emozioni di chi ha scritto la canzone e anche ricordare il contesto in cui è stata composta».

C’è chi vede nella sola interpretazione una limitazione…
«Negli ultimi decenni l’interpretazione è stata sentita come secondaria rispetto alla scrittura. In realtà, come mi disse una volta Peppe Servillo degli Avion Travel, l’interpretazione è una riscrittura: riprendi in mano qualcosa di fermo e gli ridai una spinta, un’altra possibilità. Questo ha grande importanza per tutto il mondo della musica popolare, fatta di canti antichi, di­menticati, perduti. A me pia­ce l’idea di far rivivere, nel mio piccolo, canzoni che altrimenti non si sentirebbero più».

Aver una gran bella voce l’ha mai indotta a pensare di poter badare più alla forma che al contenuto del suo cantare?

«Sono molto severa con le intenzioni e attenta alla verità di quello che sento e canto. Se non do un senso forte a quello che faccio, non lo faccio. Non sono una cantante che ha un particolare ego, una particolare costruzione di sé. Ho una sacralità che mi co­manda rispetto a quello che faccio e canto. Bisogna che alla sera vada a letto contenta di me e di quello che ho fatto».

In una canzone del disco canta con Dario Brunori. Cosa pensa dei nuovi cantautori?

«Brunori è uno che mi piace perché ha uno sguardo sul mondo. Nei nuovi cantautori sento un po’ mancare un’attenzione più universale al­le cose, in grado di aiutare chi ascolta a comprendere questo tem­po. Cre­do sia an­che compito di un cantautore fare un lavoro di ap­pro­fondimento. A volte si indugia un po’ sui sentimenti, sul proprio mondo, su cose più piccole. Mi piace, invece, quando un cantautore riesce a avere uno sguardo più rotondo sugli accadimenti della vita ed è in grado di stimolarci a comprendere e ad analizzare la realtà, ad avere un senso critico rispetto alle cose».

Gli ultimi due dischi li ha realizzati in crowdfunding. La raccolta fondi è una forma di finanziamento che le piace?

«Concede una libertà assoluta, senza nessuno che ti dica cosa fare e come farlo. È stato meraviglioso scoprire come la Rete ci servisse su un piatto d’argento una modalità nuo­va per essere indipendenti, per creare un progetto insieme a tante persone. Alla gente piace molto l’idea di fare una scelta, di essere partecipe. Si crea un senso di comunità in cui qualcuno individua un progetto, lo raccolta ad altri che sono interessati e poi insieme si cerca di farlo esistere».

BaNNER
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