Il gruppo Maxi Emergenza della Regione Piemonte, guidato dal dottor Mario Raviolo, è appena intervenuto in India per l’emergenza Covid. Si tratta di un team di specialisti coordinato dal Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, che ha già incassato gli elogi recapitati dal premier Draghi al presidente Cirio: un’eccellenza internazionale. Non a caso l’Emergency Team Type 2 è stato il primo in Italia a ricevere la certificazione che gli consente di agire in tutto il mondo in caso di qualsiasi calamità. La squadra è composta da undici specialisti e operatori dell’emergenza: due medici, due infermieri, un anestesista, un infettivologo, un urgentista e quattro tecnici. Il sistema Psa (Pressure Swing Adsorption) è in grado di produrre 61.800 litri di ossigeno all’ora con capacità di rifornire fino a 103 pazienti.
Il team è appena rientrato dall’India e il dottor Raviolo fatica a scrollarsi di dosso il peso delle emozioni vissute sul campo: «La tragedia indiana è generalmente sottostimata», ci dice subito, «nel senso che credo ci siano ancora tantissimi casi di Covid non diagnosticati e se consideriamo le condizioni diffuse di povertà che non consentono un accesso ospedaliero a tantissime persone, oltre al basso livello di igiene, ecco che si comprendono le dimensioni di quella che dobbiamo considerare una ormai inevitabile catastrofe».
Raviolo ci parla di due situazioni trovate in India con protagonisti alcuni pazienti italiani: «Le abbiamo gestite direttamente. In un caso, quello di un professionista che si trovava in India per lavoro, la malattia ha preso un’evoluzione molto negativa. Lui ha inizialmente trascurato i sintomi. O meglio, non si è rivolto subito ai sanitari conoscendo la situazione ospedaliera molto critica di quel paese. I suoi sintomi però sono peggiorati fino a uno sviluppo drammatico, tanto che purtroppo adesso temo che siamo arrivati agli sgoccioli. Mi fa male pensarci. L’altro caso è quello di due coniugi nostri connazionali e della loro bambina. Ci siamo mossi per gestirlo noi, anche se con discrezione estrema perché dovevamo andare contro l’opinione di chi li aveva in cura. Per fortuna, stanno meglio». Non è che le modalità di diffusione della malattia in India abbiano seguito un percorso diverso rispetto a quanto accaduto in Italia. Raviolo spiega che, a parte un’età media più bassa dei contagiati, a fare la differenza è il fatto che chi entra in terapia intensiva arriva in ospedale già in condizioni di malattia molto avanzata. Tanto che la morte è purtroppo la conseguenza più frequente. E poi i numeri, correlati alla vasta popolazione indiana, sono impressionanti. Il gruppo di Maxi Emergenza ha portato le sue competenze e, soprattutto, la tecnologia mancante: «Lì abbiamo trovato una dotazione di bombole a bassa pressione che non era in grado di fornire la necessaria quantità di ossigeno attraverso le tubature», racconta Raviolo. «Noi siamo stati in grado, con le nostre apparecchiature, di triplicare l’erogazione e di portare aria a centinaia di pazienti, quindi applicando nuove strategie di cura in sub-intensiva».
Raviolo ammette che quella appena vissuta è stata «l’esperienza più dura e impegnativa. Anche perché abbiamo trovato molti italiani in situazioni di difficoltà, come non ci aspettavamo. Una via d’uscita? In India il cammino sarà ancora molto lungo, anche considerando i ritardi delle vaccinazioni. Certo, ogni intervento come il nostro assomiglia a una goccia in un oceano. Però, proprio per i grandi numeri, si tratta di una goccia che può salvare centinaia di vittime».
Da pochi giorni è ripreso il lavoro di sempre per il saviglianese Raviolo, anche se limitato dalla quarantena prevista dopo il viaggio di rientro: cinque giorni di lavoro a settimana senza rapporti sociali.
Pensando però ancora all’India: «Vale la pena tornarci continuando a lottare per la nostra missione, umana e professionale. Laggiù le persone ci hanno aperto il cuore dopo un’iniziale orgogliosa diffidenza. Come uscirne? Chi prende le decisioni deve pensare al bene comune».