«Nella pandemia ho imparato l’arte della pazienza»

Paola Quattrini è tra le attrici più longeve e apprezzate del panorama italiano, alla quale sono stati affidati grandi personaggi teatrali e che sa farsi ammirare tuttora sul palcoscenico

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Il piacere di un’intervista “vis à vis”, senza l’ingombro di un cellulare in mano o appoggiato dove capita in equilibrio precario mentre cerchi di prender due appunti. L’ho ritrovato incontrando Paola Quattrini dietro le quinte del Teatro Manzoni di Roma, anzi in palcoscenico, seduta a un capo del tavolo di formica Anni Settanta che è parte di arredo dello spettacolo. Si intitola “Oggi è già domani” ed è un monologo della rinascita, su tutti i fronti.

Signora Quattrini, parliamo prima della rinascita post pandemia. Come sta vivendo il ritorno a teatro?

«Con orgoglio ed emozione. È un ritorno contingentato, il pubblico è ridotto del 50% ma l’importante è ripartire. E nonostante le restrizioni, gli orari anticipati, il coprifuoco alle 22, le mascherine, mi sembra entusiasta. Se me lo chiedessero farei anche la doppia replica. D’altronde non ho mai dubitato che sa­remmo tornati».

Anche la parabola raccontata in questo monologo di Willy Russel adattato da Iaia Fiastri è una rinascita: quella di una donna che si libera dai condizionamenti sociali e familiari e ritrova se stessa. Ha senso pensarla come la versione ottimistica della Nora ibseniana di “Casa di bambola”?
«Brava! Sì che ha senso. Non ho mai interpretato Nora (di Ibsen fece invece “La donna del mare”, ndr) ma sono un’ottimista e questa lettura in chiave ottimistica mi piace.»

Come ha affrontato la pandemia, o meglio, la lontananza dalla scena?
«Ho scoperto il divano di casa dove non mi ero mai seduta così a lungo. E ho imparato la pazienza. Io sono frenetica e quando ho un’idea per la testa, un progetto, devo subito passare ai fatti».

In questa commedia la protagonista fa finalmente il viaggio sognato. Le è mancato viaggiare? Qual è il suo viaggio dei sogni?

«Più che un viaggio dei sogni io ho sempre amato le tournée, che invece pesano a molti colleghi. Erano il mio divertimento: scoprire le bellezze d’Italia, i tanti teatri, anche di provincia, grandi e piccoli, con gli stucchi antichi, il rito di fronte a un pubblico sempre diverso. E naturalmente gli amici che si ritrovano, i rapporti che si instaurano nel corso del tempo. E sono fedele agli alberghi, scelgo sempre gli stessi perché mi sento come a casa e mi piace ritrovare i colori di gesti già fatti».

“Oggi è già domani” ripropone la regia del 2003 di Pietro Garinei. Ci regala un ricordo?

«Garinei è in assoluto la persona che ho stimato di più nel teatro italiano. Discreto, silenzioso, ma presente in ogni momento. Durante le prove prendeva appunti e poi veniva in disparte a darti consigli e suggerimenti. Era un uomo con delle solide certezze, ma sapeva trasmetterle sottovoce. Ho pianto tutte le mie lacrime quando ci ha lasciato».

Leggo che ha iniziato a recitare a quattro anni. Una vocazione precoce o un caso?
«Mah, allora non mi rendevo proprio conto e non sapevo che avrei poi fatto questo lavoro. Anche se mi piaceva già emergere. Le racconto un aneddoto. Avevo molta paura dei cani e quando un produttore mi offrì attraverso mia mamma la parte di una protagonista con un cane, lei rifiutò. Ma io che avevo assistito alla telefonata dissi che volevo fare il provino lo stesso. Avevo otto anni e tremavo dalla paura ma alla fine ottenni la parte».

Ricordo che alla conferenza stampa di presentazione di “Un tram che si chiama desiderio”, qualche anno fa, lei dis­se ‘Io sono Blanche’. Assomiglia davvero così tan­to alla protagonista raccontata da Tennessee Williams?
«Io mi sento ancora Blanche. È uno dei più bei personaggi femminili mai scritti, un classico, una figura piena di colori diversi, tormentata, fiera, a tratti divertente. Come attrice amo i personaggi che attraversano una gamma così ampia di emozioni, amo viverle e restituirle ogni volta. E il pubblico se ne accorge».

Veniamo al teatro in tv: com’è cambiato nel tempo?
«È talmente cambiato che non è nemmeno possibile fare un confronto. Noi recitavamo in diretta, con una ventina di spettatori in studio scelti tra i tecnici e il personale Rai. Non ci si poteva permettere di sbagliare, la telecamera riprendeva anche la ciglia finta che si staccava, il rimmel che colava».

Diciamo che era il teatro vero ma in primo piano, quindi ancora più difficile ed esposto all’errore. E la qualità richiedeva una professionalità assoluta.
«L’ha detto lei!».

Chi erano i suoi colleghi di allora? Sul palmo della mano.

«Giulia Lazzarini, Anna Pro­clemer, Giorgio Alber­taz­zi, Giulio Bosetti, Mas­simo Girotti».

Altri tempi, altre camminate. Però sua figlia Selvaggia ha seguito le sue orme.
«Sì, ma ha scelto di dedicarsi prevalentemente al doppiaggio. Da bambina ha patito la mia lontananza, benché io appena avevo due giorni liberi dalla tournée rientravo a casa per stare con lei anche solo mezza giornata. Ho invece sentito molto forte la sua mancanza quando abbiamo girato nel Missouri “Fratelli e sorelle” di Pupi Avati. E­ravamo davvero isolati da tutto, in un posto sperduto e credo che la malinconia che provavo mi si leggesse negli occhi e si sia riflessa nel personaggio di Lea».

Si è riflessa così bene che ha vin­to il Nastro d’Argento…. Mi fa eco una ragazzina tenerissima che scopro essere sua ni­po­te Domitilla, che la segue dap­pertutto, liceo permettendo.
«Dice che con me si diverte. E che a volte preferisce la mia compagnia a quella delle sue coetanee».
Domitilla annuisce mentre la nonna, in jeans e maglietta, si congeda e raggiunge il camerino.

Articolo a cura di Alessandra Bernocco