È tra i fortunati Giorgio Lupano. Tra coloro che in pandemia non sono stati a guardare. Impegnato sul set di una delle serie più seguite di Rai 1, “Il paradiso delle signore”, non ha mai dismesso i panni del ragioniere Luciano Cattaneo, uomo di antico charme amato da donne giovani e no che non si perdevano una replica. Già, ma adesso? Adesso che Luciano è sparito per sempre, travolto dallo scandalo di una relazione extraconiugale con la capocommessa del grande magazzino?
Lupano, come si sopravvive, da traditore, a un doppio tradimento? Prima della moglie, poi degli spettatori?
«Guardando avanti. Consideri che “Il paradiso” è ambientato negli anni sessanta, precedenti al divorzio, la situazione dei separati di allora non facilita lo sviluppo della storia. Le vicende del mio personaggio, diviso tra moglie e amante, non potevano continuare sotto gli occhi di tutti e quando Luciano ha scelto l’amante è fuggito per sempre».
I fan non l’hanno presa bene. Che effetto fa entrare nelle case degli italiani nel primo pomeriggio, tutti i giorni, come il caffè?
«Un appuntamento fisso per noi e loro, infatti. Il feedback era costante e quasi in diretta. Mentre giravamo arrivavano messaggi relativi alla puntata che stava andando in onda».
E chi volesse seguirla altrove, su quali onde si deve sintonizzare?
«Sto provando una commedia che debutterà al Festival Teatrale di Borgio Verezzi ad agosto, “Tre uomini e una culla”, tratta dal film omonimo di Coline Serreau. Vi aspetto. E poi faccio Roma Torino andata e ritorno una settimana sì e una no perché a Torino ho una partecipazione nel sequel di “Sul più bello”, una commedia diretta da Claudio Norza, uscita prima della chiusura delle sale, e siccome è andata bene sono previsti due sequel. “Ancora più bello” e “Sempre più bello”. Nel cast ci sono attori giovanissimi e io non sarò un personaggio con l’aureola».
Lei è torinese e a Torino ha frequentato la Scuola del Teatro Stabile. Torino significa casa, teatro, albori di una vocazione. Com’è nato il desiderio di fare l’attore?
«È nato da spettatore, frequentando il teatro, il Carignano, l’Alfieri. Ho voluto capire come funzionava la macchina, cosa succedeva dietro le quinte e prima della scena. Sono stato preso alla Civica di Milano e alla Scuola dello Stabile, che ho scelto perché durava due anni».
E perché era diretta da Luca Ronconi, immagino…
«Ronconi è un regista gigantesco e un grande maestro incomprensibile».
Incomprensibile?
«Io avrei voluto fare le capriole sul palco, ma col cavolo! Forse non ero il suo attore ideale, ero diverso dal tipo di attore che lui amava di più».
Però le aveva affidato il ruolo di Oreste nel saggio di diploma, uno dei due protagonisti del Pilade pasoliniano. Quanto è contato avere frequentato una scuola come quella nel suo percorso?
«Una buona formazione è molto importante, si avverte soprattutto sulla distanza, e distingue da certa improvvisazione. Ho avuto ottimi insegnanti e con alcuni di loro ho poi lavorato. Con Mauro Avogadro ho fatto cinque spettacoli. Ricordo l’umanità di Franca Nuti, la concretezza di Claudia Giannotti, la follia verbale di Maria Fabbri».
Un attore tra teatro, cinema e televisione: analogie e differenze.
«Io dico sempre che lo scopo dell’attore è raccontare una storia a qualcuno che la vuole ascoltare. Ma per raccontare una storia bisogna possedere una tecnica che varia anche a seconda del mezzo espressivo, ognuno con una sua calligrafia. La differenza tra i vari mezzi dipende dal conoscere la calligrafia con cui devi scrivere la storia. Il mio mondo interiore non è nulla se non sono in grado di esprimerlo. Se non conosco la calligrafia adatta. La percezione dello spazio, l’uso della voce, dove si trova il pubblico, l’uso del microfono, la profondità di campo sono tutte variabili che fanno parte delle diverse calligrafie».
Scorrendo i passaggi della sua carriera cinematografica mi imbatto in un film che racconta gli ultimi anni di vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Il manoscritto del principe” diretto da Roberto Andò, in cui ha lavorato accanto a Jeanne Moreau. Ci regala un ricordo?
«Lei arrivò a Palermo le ultime due settimane di riprese e io, che allora non parlavo francese, volevo presentarmi in modo gentile, simpatico, non con un banale “enchanté”. Volevo dirle “sono rapito”, mi preparo la frase e vado sul set mentre lei era al trucco. L’assistente alla regia mi presenta e io borbotto il mio “je suis ravi” e me ne vado, vergognatissimo. Il giorno dopo il regista mi ha detto “è pazza di te”».
Immagino. E poi vi siete rivisti?
«Rivisti e sentiti. Quando è venuta a Roma a presentare la versione restaurata di “Jules e Jim” mi ha chiamato per invitarmi a una colazione all’Ambasciata di Francia. È proprio vero che i grandi sono i più normali».
Normali. A proposito di normalità cosiddetta facciamo un volo pindarico e parliamone attraverso uno spettacolo dirompente che ha portato in teatro, per il quale ha dovuto imparare la lingua dei segni, “Figli di un Dio minore” di Mark Medoff, diretto da Marco Mattolini, un testo divenuto celebre per il film con William Hurt e Marlee Matlin che affronta lo scontro-incontro tra un insegnante logopedista e un’allieva sordomuta. Di questo spettacolo ha detto: “mi ha cambiato la vita”. In che senso?
«Nel senso che mi ha permesso di guardare alle cose da un punto di vista diverso. Ho capito che noi facciamo parte di una maggioranza privilegiata che decide come deve essere il mondo senza rendersi conto che il mondo è anche altro. Che la realtà ha tanti punti di vista e se noi la vediamo in un modo non significa che quel modo sia l’unico possibile e l’unico giusto. E questo discorso non vale solo per una minoranza particolare, ma va esteso a tutte le minoranze prive di quei diritti garantiti alla maggioranza».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco