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«Capitalismo etico con leggi sicure e più tecnologia»

Polito: «Gli imprenditori corretti non devono cedere all’omertà» Il vicedirettore ed editorialista del Corriere della Sera: «Quando è arrivato il virus, l’Italia era già diventato l’unico Paese non in grado di recuperare la perdita del Pil dovuta alla crisi del periodo 2008-2011»

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Commentando quanto accaduto a Stresa una decina di giorni fa, l’editorialista Antonio Polito ha aperto sul Corriere della Sera un dibattito che si è sviluppato nei giorni successivi attorno a un tema fondamentale: l’etica del capitalismo. Il sistema economico attuale sembra indurre a conseguenze tragiche come quella della funivia caduta, quando le logiche del profitto non hanno confini. Ma gli osservatori si sono schierati su posizioni in contrasto.

Direttore, lei ha parlato di etica capitalista smarrita: che cosa significa?
«Non sono stato l’unico a sostenere questa tesi, lo ha fatto anche Luciano Capone sul Foglio. Molti hanno fatto riferimento all’avidità uma­na, ma secondo me la responsabilità di quanto accaduto non deriva certo dal capitalismo. Anzi, proprio il capitalismo ha introdotto negli anni sistemi per rendere efficiente la produzione e per favorire la crescita con investimenti nell’impresa».

Quindi non esiste un capitalismo “cattivo”?
«Esistono e sono sempre esistiti gli straricchi concentrati sul patrimonio, un tempo i feudatari che la ricchezza se la mangiavano senza condividerla, quindi senza usare i profitti per accrescere il be­nessere di tutti. Ma il capitalismo è altra cosa».

Torniamo all’etica?
«In certe culture come quella anglosassone, intrisa di protestantesimo, la ricchezza è intesa come una specie di missione. In Italia non è così. Quanto accaduto a Stresa è frutto di un’economia di rapina, mordi e fuggi. D’altra par­te, i presunti colpevoli, oltre a provocare la tragedia che sappiamo, hanno arrecato un danno enorme alla cre­dibilità di tutto il sistema degli im­pianti di risalita».

Forse, in tempi di crisi, c’è un drammatico rischio: che l’esigenza di far quadrare i conti spinga persone senza etica a comportarsi come i gestori di quella funivia.
«Ma sarebbe sciocco pensare che abbia un senso. Una ferrovia è costruita per durare nel tempo, non certo per andare incontro a distruzioni. Dopo una lunga chiusura, c’è l’esigenza di ripartire e farlo in si­curezza è nell’interesse di tut­ti. Chi ha preso la decisione di non mettere il freno di sicurezza alla funivia non può avere giustificazione alcuna».

La lunga sosta per il Covid potrebbe, in generale, portare ad altre sgradevoli conseguenze?
«Si deve attivare un’allerta ogni volta che la macchina dei servizi riparte. Perché ci sono ruggini da eliminare. Dob­biamo fare attenzione anche al settore della ristorazione. Ma giustificare chi scommette sulla pelle delle persone non è possibile, da nessun punto di vista».

In Italia abbiamo vissuto un’altra tragedia come quella del ponte Morandi. Ci sono punti di contatto?
«È un po’ lo stesso principio dell’economia estrattiva, quando si estraggono solo risorse non resta nulla. Ma questo è il contrario del capitalismo. Nel caso di Atlantia e della famiglia Benetton c’era una grande società, quotata in borsa, con azionisti tenuti a seguire una deontologia comune, una catena del comando dettagliata. Quello che è successo con il crollo del ponte ha del clamoroso, il sistema è sal­tato. Que­sto di certo è più probabile nei sistemi monopolistici, dove non c’è concorrenza. Potremmo mai scegliere un’altra autostrada per fare quel tragitto? E allora qui si insinua il rischio».

Diciamo la verità, comunque l’immagine del capitalismo avrebbe bisogno almeno di un restyling. È d’accordo?
«Dipende dagli imprenditori, devono muoversi secondo standard etici. E non devono cadere nell’omertà. Voglia­mo pensare, per tornare a Stresa, che tra i gestori dei vari impianti di risalita non si sappia chi è più spregiudicato e chi più serio? E allora se si hanno informazioni importanti devono essere riferite a chi si occupa di sicurezza. Solo così si recupera quel senso dell’etica oggi smarrito. Le associazioni di categoria, in questo senso, possono fare molto. Penso alle battaglie di Confindustria in Sicilia contro la mafia. E poi serve l’ausilio di norme, che in realtà esistono già, e della tecnologia necessaria per prevenire».

Cambiamo argomento, i sindaci delle metropoli. In un editoriale ha evidenziato l’insostenibilità del ruolo, da Roma a Milano. Perché accade?
«Prima di tutto perché i sindaci devono affrontare mille problematiche di cui hanno responsabilità legale, con lo strumento di leggi complicatissime. In Italia ne abbiamo un terzo in più rispetto alle norme esistenti in Europa e si sa quanto sia vera la contraddizione per cui dove ci sono troppe regole è più facile violarle. Specie se sono in contrasto. Il rischio di cadere nell’abuso di ufficio è forte, ma i sindaci devono affrontare dav­vero un compito complicatissimo, che richiede una dedizione totale (non hanno quasi tempo libero). Peccato che lo stipendio di un sindaco ammonti a un terzo di quello di un parlamentare, con re­sponsabilità di gran lunga superiori. Inoltre, non ci sono più partiti in grado di presentare candidati rappresentativi. Si cerca il personaggio, più che il politico. Basta pensare ai nomi che circolano adesso nelle grandi città e a chi scese in campo a Roma, per esempio, a inizio anni ‘90: da Rutelli a Fini, oppure Bassolino a Napoli».

Veniamo al virus: siamo avviati verso un ritorno alla normalità?

«Il Covid è arrivato quando l’Italia era già l’unico Paese non in grado di recuperare la perdita del Pil dovuta alla crisi del periodo 2008-2011. Il declino era cominciato prima. Ora non bisogna sprecare l’opportunità di accedere ai finanziamenti per cambiare tutto. Draghi però si muove in un quadro di unità nazionale ma di politica sospesa che non si sa quanto possa durare».

Ultima domanda sulle Langhe: le conosce?

«Ho avuto l’onore di essere insignito del premio Cesare Pavese nel 2018, a Santo Stefano Belbo. Un luogo speciale anche per me».