Incontriamo Marco Bozzolo, classe 1990, laureato in Economia, nell’azienda agricola di famiglia, in località Riva a Viola Castello, sulla strada che sale al colle di San Giacomo per poi scollinare verso Priola. In questa zona boschiva, tranquilla, silente, dove domina il verde, il protagonista assoluto è il castagno, da qualche anno al centro di un progetto, quello dei “Custodi dei castagneti”, che lega una delle più antiche tradizioni del territorio cuneese alle dinamiche più moderne dell’attenzione all’ambiente e alle tematiche “green”.
Bozzolo, chi sono i “Custodi dei castagneti?”
«È una comunità che fa parte di Slow Food, nata con l’intento di raggruppare tutti gli “stakeholder” della filiera del castagno, sia quelli del “mestiere” sia gli hobbisti. Ci definiamo “custodi” perché intendiamo proteggere un ecosistema che negli ultimi anni è stato abbandonato».
Di che entità parliamo?
«Con l’ulivo, il castagno è la coltura più diffusa in Italia. Si trova ovunque. A inizio Novecento, si contavano in Piemonte 200mila ettari di castagneti; oggi ne restano custoditi solo 10mila, la maggior parte nella provincia di Cuneo e, in particolare, nel Monregalese».
Quale importanza rivestiva il castagno per l’economia della Granda?
«Fondamentale. Nel nostro dialetto, ogni pianta ha un nome, mentre il castagno è l’“erbu”, l’“Albero” per eccellenza. Lo si ritrova in ogni aspetto. Regalava l’ultimo frutto che i contadini avevano a disposizione in autunno. In quest’area si è sviluppata la tecnica dell’essicazione, che consentiva la conservazione e il consumo di castagne in inverno».
Quando è iniziato il declino?
«La castanicoltura è sempre stata legata alle sorti della montagna. Dopo il periodo d’oro a inizio Novecento c’è stato un abbandono progressivo nel dopoguerra, legato a motivazioni economiche e sociali. Molti castagneti sono stati lasciati a sé stessi. Ad altri è stata riservata una cura sommaria: una semplice pulizia del sottobosco con l’obiettivo di raccogliere le castagne. Un “prendere senza dare”, un discorso miope che porta all’implosione del bosco».
Oggi cos’è cambiato?
«A livello di mercato l’Italia era uno dei maggiori produttori: c’è stato un calo drastico, da inizio del nuovo secolo in poi la domanda è salita, l’offerta è scesa. Così hanno iniziato a proliferare i castagneti moderni, fatti di piante ibride da vivaio, fatte in laboratorio per resistere ad alcune malattie. Ma quello che proponiamo noi “custodi” è ben altro».
Cioè?
«Si continua a enfatizzare la coltura moderna, che ritengo discutibile dal punto di vista ambientale. Gli ibridi vengono impiantati in pianura; necessitano di irrigazione e trattamenti. Si crea il “nuovo”, ma si dimenticano colture già esistenti e produttive! Sono quelle che interessano a noi. Recuperando un castagneto, si fa un servizio al territorio, valorizzando un ecosistema ed evitando danni ambientali».
Ma… rende?
«Smuoviamo di certo un’economia minore, forse interessiamo un po’ di meno, anche se il settore agricoltura resta tra i più finanziati a livello europeo. Le nuove colture producono castagne di pezzatura maggiore, “rendono” economicamente di più. Una delle sfide dei “custodi” è far capire che la castagna non la mangi con gli occhi… e che alla base c’è un discorso molto più ampio. Slegato da una mera visione economica di profitto».
Dove sta la modernità?
«Il castagno è una delle colture più antiche ma paradossalmente più attuali, anche a livello di politiche ed idee europee: è una coltura biologica a tutto tondo, risponde alle linee guida del “green deal”, è in grado di ricreare comunità attive in posti come questo, dove i giovani sono di ritorno. I “Custodi dei castagneti” rappresentano una “lobby”, nel senso buono del termine: si fa sistema per creare lavoro e reddito».
Si sta ritornando alla natura?
«Abbiamo fiducia in una maggiore cura nella conservazione del territorio. Ma attenzione, è un processo che non va enfatizzato, né semplificato: molti giovani potrebbero farsi idee sbagliate. Non si deve cadere nel luogo comune che natura è bello, è facile. Il riavvicinarsi alla natura è un percorso serio, che andrebbe guidato dalle istituzioni. E, soprattutto, facilitato attraverso lo snellimento della burocrazia, che rimane uno degli ostacoli principali».