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«Fare musica di strada è una scuola di vita»

Luca Barbarossa conferma di avere la stessa voglia di immaginare e scoprire di un tempo

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“Ci incontreremo nel­l’in­ter­fac­cia per un caffè”. Era il 1996 quando Luca Barbarossa paventava dalle righe di “Cyberstrazio”, divertentissimo brano contenuto in “Sotto lo stesso cielo”, le derive di un uso indiscriminato della tecnologia. Venticinque anni fa. Prima dei social, prima di possedere tutti quanti un indirizzo e-mail come normale recapito per rintracciarci dovunque, prima che il cellulare fosse non solo alla portata di tutti ma diventasse per molti il sostituto del telefono fisso, con tutte le app e le funzioni possibili per non andare perduti, noi e il nostro bagaglio di traballanti certezze.
Finché non è arrivato il lockdown e il caffè davanti al monitor lo abbiamo preso davvero. Altroché derive. La rete ci ha salvato la vita: di relazione, d’accordo, ma vuoi mettere una vita senza relazioni…

Barbarossa, se lo sarebbe aspettato?
«Mah! Quando si scrive, la vita libera ogni tipo di immaginazione. Ma chi poteva aspettarsi un periodo così. La rete è tornata alla sua vecchia funzione di salvataggio, come per l’acrobata, un mezzo per attutire la caduta. Ma questo ci dice ancora una volta che non è giusto avere pregiudizi e che è bene spazzar via i luoghi comuni, anche sulla tecnologia».

La sottoscritta fa parte del popolo Face­book che du­rante la reclusione ha be­ne­­ficiato dei suoi concerti in diretta da casa sua, spesso accompagnato al pianoforte da suo figlio Flavio. Volevo ringraziarla.
«La diretta Facebook in questo caso era il corrispettivo della strada e io sono nato come musicista di strada. Prendi la chitarra e la gente se vuole si ferma ad ascoltare. Qui è il popolo della rete, ma anche i vicini di casa. Infatti aprivo le finestre e dalle case vicine arrivavano gli applausi».

Nel suo romanzo autobiografico “Non perderti niente” (Mon­dadori, aprile 2021) ripercorre anche quegli esordi come musicista di strada. Cos’è stata la strada negli anni Settanta?
«Una scuola di vita. Luogo di incontri, di esperienze im­prevedibili. Io ho cominciato a suonare in piazza Navona e poi ho girato l’Europa, con un amico, la chitarra e un sacco a pelo. In quegli anni si viveva prevalentemente in strada, da ragazzini si giocava a pallone».

“Non gridare che lì c’è quel vecchio/Che c’ha bucato già un pallone”. Un verso di “Quartiere”, canzone del 1988 che è anche un affresco di una Roma di borgata che non c’è più: i ragazzi coi pantaloni sopra il ginocchio, i panni in terrazza, il padre che beve, il sogno americano tra desiderio di fuga e nostalgia. A me ha ricordato il Pasolini di “Ragazzi di vita”.
«Mi fa piacere. Pasolini da ro­mano adottivo che frequentava la strada ha fotografato luoghi che conosco bene. E leggendo “Ragazzi di vita”, “Una vita violenta”, le lettere, ho riconosciuto i posti descritti con la sua incredibile capacità cinematografica. Ma questa canzone nasce anche dalla mia passione per il cinema. In particolare ci sono le emozioni di “C’era una volta in America”, le prime esperienze d’amore. E Sergio Leone era un altro grande romano. Ci sono film che ti lasciano addosso una febbre creativa e io ho cercato di restituirla con queste parole».

L’America e Roma si erano già incontrate nel suo percorso. Non penso solo alla “Roma venduta per due soldi a una vecchia americana”, ma al “country” dei suoi esordi a piazza Navona. Woody Guthrie addirittura.
«Mi piaceva la buona musica degli anni Settanta, il “country” soprattutto. E mi sentivo molto americano a Roma. Cantavo James Taylor, Jack­son Browne, Crosby Stills Nash e Young. A Woody Guthrie sono arrivato attraverso Dylan. Dylan si credeva quasi un clone, cantava convinto di essere Woody, lo andò a trovare sul letto di morte. Io invece ho iniziato a studiare in modo maniacale. Libri, testi tradotti, ho scoperto la letteratura americana».

Infatti “Cent’anni di solitudine” e “Il vecchio e il mare” sono tra le “cose da salvare” (album omonimo del ’94) insieme a tanta America e a molto altro. Oggi cosa aggiungerebbe?
«L’ambiente, senza dubbio. U­na priorità assoluta. Lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento delle temperature e questa pandemia sono il se­gno di una forte disarmonia con l’ambiente. Abbiamo ca­pito che il virus della terra è l’uo­mo e che la natura si trova a fare i conti con questo vi­rus».

Di cosa farebbe volentieri a meno?
«Dell’approssimazione, delle valutazioni superficiali, del­l’“uno vale uno”, dei negazionisti, terrapiattisti, fascisti di tutte le ore. Di tutte le categorie che remano contro la cultura».

A proposito di questo virus incontrollabile che è l’uomo, mi viene in mente un’altra canzone, “L’amore rubato”, che parlava di stupro. Era il 1988 e non è cambiato niente.
«Allora mi aspettavo che l’argomento diventasse i­nattuale, invece c’è stata un’ac­­celerazione verso il peggio».

C’è speranza? La scuola può fare qualcosa?
«Io credo che il miglior metodo sia l’esempio. La cultura e l’educazione di genere non si possono inculcare a colpi di spot o di dibattiti che vengono seguiti solo da chi non stupra. Però confido molto nelle nuove generazioni. Io ho tre figli e vedo in loro un atteggiamento più maturo, anche di quello che ho avuto io. La cultura di un popolo passa anche attraverso i diversi modi di concepire la donna e la nostra è una mentalità che viene da lontano, anche nei casi migliori è facile cadere in atteggiamenti maschilisti».

Chi sono gli yuppies di oggi?

«Gli “haters”, i leoni da tastiera che insultano e pontificano. Una categoria ancora più patetica dei giovani rampanti degli anni Ottanta».

E a volte non si limitano alla tastiera…
«Trovo molto inquietante la concezione del divertimento e dello stare insieme che pas­sa attraverso l’annientamento».

Com’è diventato il Luca di oggi e cosa farebbe se incontrasse il Luca di allora?
«I due si tenderebbero reciprocamente la mano. Oggi sono felice, con pudore, per quanto ha prodotto la mia storia d’amore, ma con il ragazzo di ieri ho ancora molto in comune, e la stessa voglia di immaginare e scoprire».

“Ci va un bel po’ di talento per essere vecchi senza essere adulti”. Una riflessione che arriva da molto lontano, presa a prestito da artisti come Picasso, Albertazzi, presente anche nella Canzone dei vecchi amanti di Jacques Brel. Nel suo libro dice che questa canzone si dovrebbe studiare nelle scuole.
«Credo che attraverso la canzone, se affronta tematiche vicine alla nostra emotività, si possano stimolare molto i ragazzi. Quel testo in cui Brel, giovanissimo, si immedesima nella storia di due vecchi amanti, è reso perfettamente dall’adattamento di Dui­lio Del Prete, grande estimatore del repertorio di Brel che ha fatto sui suoi testi un lavoro importante. Io suggerisco la versione di Franco Battiato, di rara bellezza e trattata con grande eleganza».

Già Battiato: ci regala un suo ricordo personale?

«Ho un ricordo molto dolce. Venne in radio prima della malattia e io ero molto preoccupato. Era un ospite importante da maneggiare con cura, lo conoscevo bene come artista ma molto poco personalmente. Il nostro è un programma di intrattenimento e lui è molto vicino a tematiche mistiche, esistenziali. Invece ho scoperto un uomo di un’incredibile dolcezza e ho ritrovato nel privato la stessa ironia che è presente in tanti suoi testi: cosa tutt’altro che ovvia».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco