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«Giovani, non temete di sporcarvi le mani»

L’architetto paesaggista Paolo Pejrone, dalla sua Revello, spiega perché sia indispensabile ritornare alla natura: «Ci siamo allontanati troppo, dobbiamo riscoprire il valore delle piante. Se le ameremo, faranno lo stesso con noi»

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Come il “barone ram­pante” Co­si­mo Piovasco di Ron­­dò, che pro­mi­­se di salire su un albero e di non scendere mai più (e, sussurra Cal­vino, “mantenne la parola”), Paolo Pejrone, “ar­rampicatosi” da bambino nel giardino di casa sua, da quelle fronde non si è più staccato. Nato a Torino, ottant’anni il 7 giugno, Paolo Pejrone ha portato l’architettura dei giardini ai massimi livelli, curando, in Italia e in ogni regione del pianeta, il verde di abitazioni, strut­ture e contesti urbani di primaria importanza. Og­gi, dal­la sua casa di Revello, ai piedi del Monviso, continua a lavorare e a osservare il mon­do cambiare, un mondo che «si è staccato così tanto dalla na­­tura che ora la ricerca in tut­te le sue forme».

Architetto, come ha sviluppato la pas­sione per la creazione di giardini e per la gestione del paesaggio?
«Per noia: da bambino la scuola non suscitava il mio en­­­tusiasmo e i miei fratelli era­­no troppo grandi per me. Co­sì ero sempre con i giardinieri e, in particolare, con Maria, la mo­glie di uno di lo­ro, che mi ha insegnato, per pri­ma, a sporcarmi le mani. Il resto del mondo, però, sem­bra­va non capire, i miei compagni parlavano del Grande To­­rino e di Scudetti e ridevano di questa mia strana passione. Fino a che, ai tempi del liceo, arrivò a casa nostra un anziano professore fiorentino che mi propose di iscrivermi ad Architettura, dando una svol­ta alla mia vita».

I suoi genitori come la presero?
«Rimasero sorpresi. Mio pa­dre non riusciva a capire co­me un architetto potesse interessarsi alle piante e non ai mattoni».

Dopo la laurea, inizia un pe­riodo di grandi viaggi. Chi sono stati i suoi maestri nella fase giovanile?
«Dopo il militare, ebbi la fortuna di essere “pe­scato” da uno dei più grandi architetti d’Europa, Russell Page, che se­guii in Inghilterra. E poi ci fu naturalmente Roberto Bur­le Marx, con cui collaborai in Brasile: aprì i miei orizzonti nei confronti della botanica, facendomi comprendere l’importanza di curare le piante con attenzione e affetto. A un certo punto, però, mi dissero che era giunto il momento che io cercassi la mia strada. Sep­pure un po’ spaventato, mi lanciai: ricordo il primo la­voro, a Sant’Ilario di Nervi. Poi a Moncalieri e, piano pia­no, fuori dall’Italia, in Ger­ma­nia, Francia, Spa­gna…».

E in questo momento di cosa si sta occupando?
«Insieme a Renzo Piano, sto la­vorando a un ospedale per bambini vicino a Bologna, che dovrebbe essere pronto tra un anno; il progetto, naturalmente, è suo. E, poi, proprio in questi giorni, è uscito un mio nuovo libro, per Einaudi, “I dubbi del giardiniere”».

Secondo lei c’è interesse per questo suo mondo? O è un saper fare che sta scomparendo?
«In trent’anni è cambiato tut­to, c’è grande curiosità per il ver­de e i giardini. Il mondo si è trasformato, probabilmente perché, tra le altre cose, la no­stra civiltà si sente sempre più lontana, staccata dalla na­tura e, pertanto, la ricerca in tutte le sue forme, dal cibo ai mezzi di trasporto. Detto ciò, l’approccio su al­cune questioni non mi convince».

Qualche esempio?
«Mi lascia perplesso il modello del “Bosco Verticale” di Mi­la­no, in cui le piante sembrano tirate, “costrette” e l’idea che c’è alla base, di sviluppare un ambiente na­­turale, sem­­­bra essere una sfi­­­da. Io penso che al­le pian­te, anche all’interno di con­testi urbani, si debba dare gioia, vita e che non basti semplicemente dire di ave­re messo a di­mora un certo nu­mero di alberi, come se fossero dei pa­li. La battaglia per il verde si fa dando il giusto spazio, l’acqua, la libertà ne­cessaria, co­no­­scendo a fon­do le piante».

Qual è la sua filosofia?
«Faccio mie le parole che ripeteva Page: “less is more”, “me­­no è meglio”. Bisogna ri­cercare la semplicità, l’essenziale, ciò che è pulito e naturale. Co­sì come, per esempio, ci è sem­brato naturale, al Ca­stello di Miradolo, osservando una catasta di pietre, farle diventare un tramite tra la terra e il legno dei pali, per poi allargarci fino a creare l’orto, seguendo lo schema della natura».

Il giardino che non scorderà mai?
«Uno visto da bambino a Re­vello: un posto ma­gnifico, circondato dalle fragoline».

Cosa consiglia ai giovani?
«Di non aver paura di sporcarsi le mani, di chinarsi sulla ter­­ra e di conoscere profondamente le piante; direi loro di voler bene a ciò che curano, di essere degli amici. Mi viene in mente mia nonna, che non aveva fatto studi in questo sen­­so, ma era una grande giar­­­diniera nella sua semplicità: amava le sue piante e queste rispondevano, sempre».