“Gec Art”, al secolo Giacomo Bisotto, sta per portare la “street art” tra i vigneti di Langhe e Roero. Sebbene luoghi e date del suo progetto “Wine in progress” siano ancora segreti possiamo immaginare che faranno discutere. La sua storia parte da lontano, da quando un collezionista comprò una sua opera a patto che usasse quei soldi per andare a New York. E lui, per nostra fortuna, ci andò.
Lei, cresciuto a Boves, ha studiato al Politecnico di Torino: originale per un artista…
«Ho studiato architettura, che non si discosta troppo dalla mia arte: lavoro sempre a progetti che prevedono come primo passo un coinvolgimento diretto delle persone. Attraverso Internet, metto in atto delle “call”, delle “chiamate”, affinché possa ricevere il materiale e le suggestioni che, in seguito, impiegherò per creare. Tale confronto riserva sempre grandi sorprese e porta a risultati non previsti; occorre chiaramente essere aperti al divenire».
Ci dica di più…
«Esiste un progetto di partenza ma una volta messa in moto la macchina bisogna permetterle di iniziare a sbandare, di deragliare dall’idea iniziale; bisogna saperla seguire e poi, alla fine, far convogliare la moltitudine di input in un’opera definitiva».
I suoi lavori, per le caratteristiche con cui si presentano, hanno una durata breve, temporanea. Qual è il motivo di questa scelta?
«Io vengo dal mondo della “street art”: da giovane uscivo con poster, colle e furgone e andavo a Torino di notte ad attaccare i miei lavori. Si tratta di un’arte che vuole raccontare e mandare messaggi utilizzando la città come una tela, uscendo dai musei per entrare nel vivo del quotidiano. Ora le mie creazioni sono riconosciute ma non dimentico la freschezza di quell’attitudine di lavorare di notte, al buio, di quei gesti a loro modo dirompenti. Non è una strada facile da percorrere ma il viaggio è pieno di fermate trasversali e accadono imprevisti che si trasformano nel vero valore aggiunto».
Il progetto “Wine in progress”, però, è istituzionale…
«Con questa proposta artistica ho vinto la “call” del progetto europeo “Eti”, promosso in Italia da Fondazione Bottari Lattes. L’idea era una raccolta di foto tratte dagli archivi privati di famiglie del territorio vitivinicolo di Langhe e Roero per realizzare un’opera d’arte pubblica “open air”, attraverso enormi poster collocati in luoghi simbolo del territorio. Ha colpito l’intento di far dialogare mondo digitale e analogico e la volontà di leggere il presente attraverso il recupero della memoria».
Qual è il messaggio?
«Il progetto “Wine in progress” nasce dal desiderio di raccontare le colline langarole e roerine prima che diventassero meta di turisti di tutto il mondo, focalizzandosi sui veri protagonisti che hanno reso tale territorio ciò che è diventato, usando le città e i loro muri come se fossero una grande area di intervento. Dopo la “call” sono arrivate più di cento di foto, tra cui tre o quattro vere “bombe” come l’immagine di un bambino che salta le ceste in vigna. Risale agli anni ’60, è uno scatto casuale ma ha la potenza di un’istantanea da professionista. Le immagini arrivate ritraggono spesso gli uomini al lavoro nei vigneti prima del boom e portano alla luce i veri padri fondatori, che sono nascosti nelle memorie personali delle singole famiglie».
Come trasformerà queste foto?
«Sceglieremo le più potenti per realizzare poster giganti che verranno sistemati in location di richiamo nelle colline, intorno a giugno. Per quanto rimarranno esposti? Sarà il tempo a deciderlo. Non sono opere fatte per durare ma per stare al gioco del tempo, appunto, e della strada. Ogni settimana poi fotograferò l’opera per vederne le trasformazioni, l’usura, le interazioni. Può accadere di tutto. Una volta sistemato, il poster vive di vita propria. Il mio intervento non è finale, è solo l’inizio di una nuova fase, così l’artista e il pubblico si trovano sullo stesso piano».
Ecco, a proposito del fruitore… Qual è il suo ruolo?
«Il fruitore ha molto potere, può fare fiorire o addirittura distruggere un’opera. Le persone posteranno sui social i loro selfie e io registrerò quello che succede. La mia idea è di creare un filo invisibile che collega le foto storiche dei nonni con i selfie dei nipotini, in una continua comunicazione. Avremo così, quando il progetto sarà concluso, un secolo di fotografie».
Perdoni se insisto sulla temporaneità delle sue creazioni… Ma non è un limite?
«No, anzi, questi lavori nascono proprio per interagire con la strada, con il pubblico casuale che passa e le incontra. Le persone possono decidere di ignorarli, di fotografarli e condividerli, di scriverci sopra, di muovere gli oggetti, come nel caso dei mouse che avevo sparso per Parigi, e di creare nuovi significati all’interno del messaggio di partenza».
Dove guarda la sua arte?
«La fase più pura e anarchica è finita. Ora c’è più interesse da parte del mercato ma io mi sono spostato verso altri orizzonti, amo camminare dove l’erba non è ancora stata calpestata. Ho in mente un nuovo progetto il cui tema sarà il mondo del lavoro, realizzato con i curriculum dei ragazzi, che uscirà in un tempo da definirsi, dopo la crisi economica e occupazionale causata dal coronavirus».