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«Teatro di territorio? È una gran bella idea!»

L’attore albese Paolo Tibaldi descrive l’emozione di portare in scena le tradizioni di Langhe e Roero

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Una frase pronunciata da bambino diventa un mantra da ripetersi nei momenti più difficili. E aiuta a inseguire il proprio sogno, che non ha confini ma tiene le radici ben salde sul territorio. Incontriamo Paolo Tibaldi, attore albese che da oggi, giovedì 3 giugno, è protagonista di tre serate di intrattenimento dal titolo “Abitare il piemontese”, nel programma di Alba Capitale della Cultura d’Impresa, che culmineranno con lo spettacolo teatrale “Lo straordinario”, con voce fuori campo di Massimo Dapporto, il 15 di ottobre.

Tibaldi, quando ha sentito che la sua strada era la recitazione?
«All’asilo, durante il primo saggio. Dicevo una sola battuta: “Oh, sì, bella idea!”. Un modo di dire ottimista che mi accompagna da allora. Da lì in avanti ho colto tutte le occasioni per andare in scena, dall’oratorio parrocchiale al laboratorio di teatro dell’Istituto Ei­naudi. Dopo il diploma, ho lavorato per un anno in una cantina, per poi puntare decisamente sulla recitazione: sono andato alla scuola del Teatro delle Dieci di Torino per tre anni e alla “Paolo Grassi” di Milano per specializzarmi. In questo settore, però, non si smette mai di studiare; tra pochi giorni partirò per un mese in Ungheria, dove seguirò un percorso di “teatro fisico” con il regista russo Sergei Ostrenko».

Che obiettivo si pone con la sua attività?
«Raccontare storie».

Su quali si soffermerà nelle tre serate albesi?
«Parleremo della lingua piemon­te­se e in particolare di come nel­le Langhe e nel Roero abbia ac­compagnato l’evoluzione del­l’ul­timo secolo, facendo sì che Alba potesse diventare Capitale della Cultura d’Impresa. Parti­remo dalle parole per ricostruire vicende curiose e situazioni ro­cambolesche accadute ad Alba e dintorni: “Abitare il piemontese” vuol dire non solo parlarlo ma anche mangiare, lavorare, sognare di “farcela” in piemontese. Scopriremo che la parola piemontese per pesca, “persi”, richiama la Persia da cui il seme è arrivato qui per trovare nel Roero un terreno tanto fertile, e le etimologie dei nomi dei vini: Dolcetto, Arneis, Nebbiolo e i “tre bar”, Barolo, Barbaresco e Barbera. Rifletteremo su “travàj” e “barachin” e sulle vicende dei “mi­granti rondine” che all’inizio del secolo scorso facevano due viag­gi dalle nostre zone verso l’America, il primo per andare a seminare i cereali e il secondo per la raccolta».

Com’è nato l’amore per il piemontese?
«Ci sono cresciuto e tuttora, nei momenti estremi, il sentimento positivo o negativo viene fuori in piemontese, con paroline dolci o pa­rolone meno tenere ma sempre molto veraci e sincere. Succede spesso di andare in giro per l’Italia e all’estero, ma c’è un richiamo, una vibrazione viscerale per il luogo d’origine che penso faccia parte di ogni persona».

Insegue un traguardo, un punto d’arrivo?

«No, non ci sono limiti. Anzi, l’importante è aprire sempre di più il raggio d’azione delle storie che descrivo: sarebbe bello poter dare vo­ce alla mia terra un domani anche al di fuori della regione».

Un aneddoto?
«Da piccolo ero appassionato di serie tv e non perdevo una puntata di “Amico mio” con Massimo Dapporto e il fatto che adesso abbia accettato di partecipare al mio spettacolo mi inorgoglisce tantissimo. Il titolo, “Lo straordinario”, gioca sui significati di fuori dal comune e di impegno richiesto a un dipendente oltre l’orario; vedrà un im­piegato riferire a uno o più colleghi alcuni episodi della storia delle aziende della città».

È una carriera difficile per un giovane, quella che ha scelto?

«Molto, ma ci sono anche le energie e soprattutto deve esserci la tempra per andare avanti. Una delle forme di resistenza di questi tempi è non scendere a compromessi e non arrendersi anche quando non c’è terreno fertile intorno, sapere di essere al proprio posto come ciascuno merita».

Ci sono stati momenti in cui ha pensato di mollare?

«No, neanche nell’ultimo anno e mezzo. È stato un periodo di grandi riflessioni, dovute anche alla mancanza di attività pratica, che mi hanno portato a scrivere, pensare, proporre. Di tanto in tanto torna utile ricordare: “Oh, sì, bella idea!”».

Articolo a cura di Adriana Riccomagno