Poche parole. Questo articolo doveva essere un approfondimento con Paolo Conte in forma di classica intervista. Nei fatti, invece, è diventato un condensato di ciò che la musica del cantautore astigiano da sempre rappresenta. E la stringatezza delle sue frasi, relegate a messaggi concisi, non ha cambiato il senso dell’intervista stessa. Poche parole che funzionano come i versi delle sue canzoni. Rievocano magie senza tempo, hanno il sapore del buon vino e della tradizione che da queste parti ben conosciamo ma di cui a volte, magari, ci dimentichiamo. Sono canzoni che sembrano (sono) racconti e che creano con il suono di una musica avvolgente un’atmosfera perfino cinematografica.
Le narrazioni di Conte rievocano con le loro note suggestive le trame dei film di un tempo, le vecchie storie in bianco e nero.
È lo stesso autore a confermare l’esistenza di questo punto di contatto, spiegando come tutto ruoti attorno al trascorrere del tempo: «La sceneggiatura canzonettistica e quella cinematografica devono, entrambe, fare i conti con il tempo a disposizione. Raccontare e ambientare in un breve spazio. Usare il flashback, sottintendere, riempire e svuotare rapidamente la scena».
Tutto insomma è compresso nel breve volgere di una canzone così come di una scena. Il tempo in entrambi i casi resta sottinteso, fluido, non ha mai uno sviluppo coerente. Ed è qui forse che comincia la magia.
Lo stesso vale per i protagonisti delle canzoni. Sono personaggi legati a un tempo distinto, eppure sono anche immortali grazie alla finzione che, di nuovo, può essere canzonettistica oppure cinematografica.
In quel contesto tutto cambia. Il pensiero corre ai ciclisti, alle biciclette del Giro d’Italia che, proprio recentemente, hanno attraversato il Piemonte. Sono immagini che si associano perfettamente alla poetica di Conte, che nel ciclismo ha trovato un’ideale metafora del suo pensiero. Lui stesso ce ne rivela una parte, quando ammette che il Giro per lui è sempre un evento in grado di riaccendere ricordi ed emozioni. E anche «i fantasmi del passato: Gerbi, Girardengo, Binda, Coppi, Adorni, Magni, Bobet, Merckx…».
Lui stesso stila l’elenco dei campioni più rappresentativi. Tra questi, non è certo casuale la citazione dedicata in primis a Giovanni Gerbi, nato ad Asti come Paolo Conte (per la precisione in frazione Trincere, nel maggio del 1885). La leggenda racconta che durante una corsa, affrontata da Gerbi con la solita veemenza agonistica e indossando come sempre la maglia rossa che rappresentava la sua voglia di sfida, un parroco di campagna si spaventò vedendolo arrivare a massima velocità nel mezzo di una processione, tanto da esclamare: «Chiellì a l’è al diaul!». E da quel momento Gerbi fu il “Diavolo Rosso”. Non a caso nell’album “Appunti di viaggio”, Conte ha dedicato proprio a Gerbi una bellissima canzone dal titolo “Diavolo Rosso”. Un ritratto d’epoca nel cuore delle campagne monferrine, di sentimenti antichi, di aranciate e sguardi dei francesi. E poi «controluce tutto il tempo se ne va». Tematiche che ovviamente tornano in altre canzoni, prima fra tutte “Bartali”, quella famosa dei «francesi che si incazzano» (e, nonostante questo, i francesi lo amano) e del ciclista con il «naso triste da italiano allegro», altra suggestione decisamente cinematografica. Quasi un film che diventa colonna sonora, senza che quel film esista.
Perché, oltre all’elemento temporale, anche quello scenografico è assolutamente preponderante. Sembra di stare davanti al grande schermo e di assistere a una sequenza di immagini che descrivono panorami a noi familiari. Una campagna amata, tra strade polverose e risaie. Percorsi che si snodano da Asti alle Langhe e non solo. Il “Maestro” conferma, siamo al centro del suo mondo: «Sono uno specialista del paesaggio», ci dice. Ma anche «uno specialista della sua natura profonda, rituale, etnica».
Il paesaggio racchiude storie vissute e percorsi umani, li rispecchia nei colori e nei profumi. E in quelle situazioni a cui Conte accenna parlando di riti.
Certi gesti antichi che si condividono nei discorsi, nelle usanze, nei rituali appunto. Che si ripetono e che entrano nella quotidianità. Fuori dal tempo. Così come l’aspetto etnico. Ogni campagna custodisce le origini del popolo che la abita. Altri dettagli che emergono da certe straordinarie canzoni.
Questa è una grande ricchezza, da qui Conte è partito per sviluppare la sua arte.
Non potrebbe mai separarsene. L’ultima battuta, anche a questo proposito, è significativa. Quando gli chiediamo come ha fatto a superare le chiusure e i tormenti del Covid, ci ha risposto così: «Ho il privilegio di vivere in campagna». E forse non occorre aggiungere molto altro.