Ormai ci siamo. Il debutto è dietro la porta, quella del camerino del teatro Astra di Torino, dove tra poche ore si torna in scena. Roberta Caronia è Giulietta, unica interprete di uno spettacolo visionario diretto da Valter Malosti e costruito a partire dal racconto omonimo di Federico Fellini ripubblicato nel 1994 per le edizioni il Melangolo. L’emozione è grande, il timore pure. «Parlare aiuta», mi dico io per convincermi di non essere inopportuna, così tra una prova e l’altra, a meno di un’ora da quella che in gergo si chiama generale, Roberta mi concede una piacevolissima conversazione.
Mi racconti di questa Giulietta.
«Lo spettacolo nasce sull’impronta del primo trattamento che Fellini fece sulla figura di Giulietta, prima di girare Giulietta degli spiriti. Un viatico tra l’idea e il film vero e proprio sotto forma di flusso di coscienza. La prima messa in scena è del 2002 con Michela Cescon; l’adattamento e la regia sono sempre di Vitaliano Trevisan e Valter Malosti».
In questo flusso cosa fluisce?
«Le immagini e i ricordi legati all’infanzia di una donna che incontrando i suoi spiriti prova a elaborare il lutto dell’amore perduto. Accedendo al mondo dell’infanzia, del fantastico, dell’onirico, cerca di superare un grande dolore, di saldare una frattura. Giulietta fugge dalla realtà per poterla accettare».
Capita anche a Roberta di fuggire dalla realtà?
«Un’infinità di volte. Per fortuna noi attori abbiamo delle riserve di immaginazione a cui attingere che ci consentono di sopportare il peso della realtà. Abbiamo la fortuna di poter accedere al nostro mondo interiore grazie al nostro lavoro che non ci dice “devi stare nel reale”. Possiamo sospendere la concretezza della vita quotidiana per ritrovarne una diversa: quella dei grandi moti dell’anima».
Recitare in inglese si dice “to play” e in francese “jouer”: quando recita sente mai di stare giocando?
«Certo! Recitare è un gioco serissimo».
Le capita anche di giocare fuori dalla scena, magari con suo figlio di sette anni?
«Spesso. E a Ruggiero cerco di trasmettere la convinzione che la fantasia e l’immaginazione siano grandi risorse. Mi piace sentirlo fare le voci dei diversi personaggi con cui sta giocando. È quella dimensione del gioco che ti aiuta nella vita».
Come si vive il lockdown con un bambino di seconda elementare?
«Un inferno, soprattutto per i bambini. Non ne potevano più di incontrare gli amichetti solo attraverso lo schermo. Adesso bisogna lasciar perdere per un po’ questa realtà virtuale e tornare al contatto, a correre e giocare nel parco».
Teme che il pubblico sia cambiato?
«Cambiato non so, forse. Ma non lo temo, anzi penso che succeda al pubblico quello che è successo a me come spettatrice, che non vedevo l’ora di ritrovare persone vere, in carne e ossa. Piuttosto sono io che temo di non avere la stessa energia di prima. Dopo un anno chiusi in casa come topi come faccio a riprodurre il mondo dell’immaginazione?»
Forse proprio in forza della reclusione, l’immaginazione si libererà con più forza.
«Speriamo».
Parlando di energia, è diversa la prestazione in un monologo rispetto al lavoro di compagnia?
«Si tratta di due forme di teatro molto diverse. Nel monologo assumi su di te il peso della “performance”, in compagnia gioca la dimensione dell’ascolto».
Lei cosa preferisce?
«La compagnia. Mi piace il lavoro di squadra, dove ogni sera si rinnova un patto tra gli attori e grazie a quel patto si può chiedere al pubblico di crederci. Sappiamo che è una convenzione, ma se io ti dico che questa sedia è una siepe e tu mi credi vuole anche dire che il patto tra noi è stabilito».
Però non è nuova al monologo. In “Ifigenia in Cardiff”, il testo di Gary Owen, interpretava una donna moderna che con la sua intelligenza si ribellava a un ruolo già scritto.
«Ifigenia ha rappresentato per me un momento di svolta, la liberazione, un salto nel vuoto in cui sono cresciuta di colpo. Dal punto di vista dell’autonomia il monologo resta un’esperienza fondamentale in cui passi da essere esecutore a interprete».
Però la compagnia è la compagnia. Soprattutto quando si recita accanto a Giorgio Albertazzi. Com’è andata con Edipo a Colono?
«Facevo Antigone accanto a un gigante al Teatro Greco di Siracusa e tremavo come una foglia».
E lui?
«Si avvicinò e mi disse “bambina oh che tu fai lì”?»
E lei?
«Dico: “Me la faccio addosso”»
E lui?
«Prima pensala poi dilla. Andrà tutto bene. Intendeva la battuta, chiaramente».
E come andò?
«Vinsi il premio Duse, menzione d’onore, lo stesso anno.
Con Albertazzi fece anche “Lezioni americane” di Italo Calvino. Qual è oggi il peso della leggerezza calviniana?
«Magari ci fosse oggi quella leggerezza. Oggi la leggerezza è il vuoto e Tik Tok è considerato un mezzo di conoscenza».
Il grande pubblico la conosce per alcune fiction di successo. Montalbano in primis.
«Un’esperienza divertentissima, sia con il giovane sia con il vecchio».
Vecchio?
«Volevo dire storico».
Glissiamo.
«No no è stato un set formidabile, Luca è un grande professionista oltreché un amico. Ho girato con Alberto Sironi, che è stato un po’ il papà di Montalbano».
In una fiction più indietro negli anni, “I fantasmi di Portopalo” era la moglie di Beppe Fiorello. Com’era andata?
«Bene. Un buon battesimo per me che ero per la prima volta protagonista femminile. Una storia importante di denuncia di morti in mare, purtroppo ancora attuale. E invece continuiamo a sentir dire che non è una priorità».
Sta per uscire un film per il cinema in cui è la moglie di Massimo Popolizio, “Il confine”, diretto dal giovane regista Vincenzo Alfieri. Se le chiedo uno spoiler?
«Posso dire che è un thriller psicologico che riguarda la sparizione di due ragazzi in un imprecisato paese di provincia. Nel cast c’è anche Edoardo Pesce (David per “Dogman” di Matteo Garrone, ndr); Popolizio è un grande capocomico, anche sul set. Un pezzo da museo. Ma non nel senso che è vecchio eh.
Storico?
«Così non ne esistono più».
«A mio figlio insegno che l’immaginazione aiuta nella vita»
L’attrice Roberta Caronia racconta l’energia con cui si dedica al “gioco serissimo” della recitazione