Da quel giorno di circa 300.000 anni fa in cui l’“Homo sapiens” comparve sulla Terra sono stati poco più di 500 gli esseri umani ad aver avuto le qualità e il coraggio per farsi lanciare in quello spazio che, tra astronavi, viaggiatori stellari e prodigi della tecnica, ha così tanto alimentato la fantasia collettiva nel corso dei secoli. Franco Malerba è uno dei 500: ligure, nato a Busalla quasi 75 anni fa, nell’estate del 1992 è diventato il primo italiano a finire… in orbita nell’ambito della missione “Sts-46”, aprendo la strada a una generazione di cosmonauti e dando un nuovo input allo sviluppo della tecnica aerospaziale nel nostro Paese. Non solo: come tutti i primi della fila, Malerba ha dovuto indicare il sentiero e aprire, con tutte le difficoltà del caso, una porta che fino a quel momento, in Italia, sembrava sbarrata.
Malerba, la domanda più ovvia: come è diventato astronauta?
«Negli anni ’70 e ’80, in Italia, nonostante l’allunaggio avesse destato grande impressione, il percorso per diventare astronauta sembrava impraticabile. Avevo all’attivo una laurea in ingegneria e una in fisica, unite a un’esperienza di ricerca negli Usa, quando l’European Space Agency (Esa) indisse un bando per la ricerca di astronauti. Era il 1978 e, quasi per gioco, mi candidai, scoprendo di avere i “numeri” giusti; ma in quegli anni, così complessi dal punto di vista socio-politico, mancava il supporto governativo e alla fine venne scelto il candidato tedesco. Non mi scoraggiai; anzi, rimasi competitivo e, nel 1989, quando si ripresentò la possibilità, riuscii a ottenere il “biglietto” per quella grande avventura».
Cosa pensa un uomo quando realizza che andrà nello spazio e che, per giunta, sarà il primo del suo Paese a farlo?
«Non te ne rendi conto subito, sei immerso nei test e nella preparazione. Ricordo le procedure che dovemmo seguire e l’approccio, poi rivelatosi vincente, con cui affrontai l’esperienza: avevo acquisito quell’attitudine facendo ricerca…».
Ci sveli il segreto…
«La chiave è pensare sempre al fatto di avere una realtà stabile a cui tornare, un po’ come quando si resetta un computer. In realtà, era un’idea semplice, ma venne apprezzata dalla commissione che doveva decidere chi mandare nello spazio».
Ha avuto paura che qualcosa potesse andare storto?
«Ci sono due tipi di paure: la prima, la più ovvia, è quella legata alla propria sopravvivenza. Ma questa, come immagino facciano i piloti di Formula 1 o di moto, viene scartata a priori: altrimenti significherebbe aver sbagliato mestiere».
E l’altra?
«È più profonda e riguarda la capacità di essere performanti nei propri compiti e di saper gestire la Legge di Murphy, ovvero la possibilità che qualcosa possa andare storto. A ciò si aggiunge l’assenza di peso, una situazione che risulta anomala anche se ci si allena».
L’immagine più bella?
«Sicuramente non le stelle, anche perché la visibilità non era granché. Dello spazio ricordo soprattutto la Terra e le luci sulle coste delle città che disegnavano il profilo dei continenti. Il nostro, sembrerà banale, è davvero un bel pianeta».
Nel 1994 è stato eletto europarlamentare. Meglio fare il politico o l’astronauta?
«All’inizio avevo delle esitazioni. Il Parlamento Europeo, però, è un luogo dove, rispetto a ciò che avviene in Italia, si privilegia molto la competenza a scapito di legami e rapporti di conoscenza. In quel ruolo, ho avuto modo di lavorare al progetto di sviluppo della navigazione satellitare, che all’epoca era ancora un’esclusiva americana, riuscendo a unire le tante anime del Parlamento, divise tra i favorevoli e i critici, timorosi di uno sviluppo in senso militare dell’iniziativa. Dopo anni di impegno, oggi Galileo è funzionante».
Le prossime sfide… spaziali?
«Lo spazio si sta allargando, grazie a una rete sempre più robusta e a fondi più corposi che stanno giungendo dai privati, soprattutto negli Usa; dall’altra parte c’è la Cina, in cui il governo sta investendo somme massicce per essere competitivo. L’Europa, dopo aver perso le sfide tecnologiche su computer e telefonia, non è particolarmente indietro e si dimostra presente, orientando la sua strategia a una collaborazione con gli americani: non siamo una retroguardia, ma la battaglia è dura e bisogna continuare a investire. Altra questione è invece il caso italiano: da noi storicamente manca il capitale di rischio e solo di recente si sono fatti passi avanti».
Di questo parlerà presto anche al Festival dello Spazio di Busalla, che ha contribuito a ideare. In generale, c’è sensibilità verso questi temi?
«Ci sono molte persone interessate ma a volte è difficile far passare l’idea che non sono questioni esclusivamente per addetti ai lavori. Piano piano stiamo riuscendo a superare questa barriera, cercando, nel caso del nostro festival, di utilizzare sempre un linguaggio chiaro e comprensibile».
I suoi progetti futuri?
«Oltre al Festival, ho collaborato con la Commissione Europea come coach per le piccole aziende attive in ambito aerospaziale. Continuo a scrivere e poi c’è un terzo progetto: con l’orchestra di Alessandria abbiamo musicato alcuni miei scritti sulle tematiche spaziali. Mia moglie Marie Aude racconta la mia missione dall’altra prospettiva: recitare l’entusiasmo, gestire un bambino e la paura, ricevere la solidarietà della moglie del Comandante mentre, sola nella sala di lancio, si gioca la partita della vita».