Il viso è appena più appesantito, il sorriso immutato. Buono, luminoso, rassicurante. Lo abbiamo visto per anni in tv, svelare scorci meravigliosi d’Italia e tradizioni e storie, l’abbiamo perduto senza nemmeno farci troppo caso nel frullatore mediatico che sovrappone volti, oscurando e inventando vorticosamente personaggi, imponendoli e accantonandoli, l’abbiamo infine ritrovato in un contesto assai diverso, in abito talare, pastore d’anime a Sanremo.
Fabrizio Gatta, pochi anni fa, era un conduttore affermato: Miss Italia, Lineablu, Linea Verde, Uno Mattina week end. Per noi popolo del teleschermo un uomo di successo, da immaginare, oltre salotti e riflettori, pienamente appagato, evidentemente felice. Perché poi? Cosa sappiamo davvero dei personaggi pubblici? Sul serio pensiamo siano sempre sereni e divertiti, contenti come appaiono, mai sfiorati da ombre di dolore o dubbio, assaliti da tormenti quotidiani? La verità è che non sono grandi loro, ingigantiti nella percezione dal trovarsi dall’altra parte del televisore, ma piccoli noi nel ritenere che successo e annessi soldi e annesse esclusività (ristoranti vip, alberghi vip, amici vip, vacanze vip) possano diventare sinonimo di felicità. Non è così. Dietro il personaggio c’è sempre una persona. Come noi. A volte perfino più sola. Una persona che spesso soffre, s’interroga, piange di nascosto. O, semplicemente, si guarda attorno e avverte un’insoddisfazione apparentemente irragionevole, in realtà specchio dell’inganno della recita, della confusione tra vita e set.
Fabrizio Gatta non s’è accostato a valori nuovi, profondità interiori, perché travolto da una cattiva sorpresa dell’esistenza, sgambettato dal destino come può capitare a chiunque: ha voluto cercare il senso della vita e il significato del destino, non magma di casualità e coincidenze ma traccia superiore, spirito divino, amore da cogliere, respirare, diffondere. «Avevo successo, belle auto e belle donne, non mi mancava nulla. Vivevo un po’ quel senso di onnipotenza che ti dà la notorietà» spiegò Gatta alla rivista Credere nel momento in cui scelse di abbracciare il percorso teologico. «Poi non ti basta più quello che fai. Non ti bastano più la notorietà, i soldi, lo share, l’applauso. E allora cerchi di fare del bene. Di impegnarti. Di fare un’adozione a distanza. Cerchi di capire il Mistero. E ti metti in gioco».
Non c’era stato l’amore, “quello per sempre”, nella vita di Gatta. «Ma doveva arrivare un Incontro più importante». E l’amore che gli ha cambiato la vita per sempre è stato quello di Dio, per Dio: «Ho lasciato tutto per Lui. Mi sono sentito abbracciato. Spero che la mia storia diventi esempio per quei tanti che si vergognano di mettersi il crocifisso al collo, o di dirsi cristiani. Abbiamo bisogno di testimoniare la nostra fede, senza per questo diventare fanatici». Dopo aver studiato per sette anni teologia, Gatta è stato ordinato diacono e a dicembre diventerà sacerdote: in attesa di completare il percorso diffonde la fede nella sua piccola comunità e in una comunità immensa che raggiunge attraverso i canali social, Sempre dall’altra parte dello schermo, in fondo, con lo stesso sorriso. Senza rimpianti. E con una gioia nuova, grandissima, dentro.