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Il maestro stanco

A ottant’anni, dopo aver raggiunto la fama planetaria come direttore d’orchestra, Riccardo Muti non nasconde di non riconoscersi più nel mondo odierno e di far fatica ad adattarsi. Dopo tanti applausi ricevuti, per il suo addio chiederà soltanto silenzio

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Dicembre 1948, Molfetta, festa di San Nicola, il piccolo Riccardo riceve in dono un violino. La fiaba del maestro Muti comincia così, con la delusione di un bambino di sette anni che desidera un giocattolo e trova uno strumento. O forse no, comincia nel ’43: lo portano in fasce al Petruzzelli di Bari, c’è l’Aida e lui, incantato, non piange, e chissà che il concerto di pochi giorni fa, per la riapertura del teatro, non sia un cerchio che si chiude e accorda i due incipit, ché anche stavolta c’è un dono ed è la Sacra manna del protettore. Nessun dubbio, in ogni caso, sull’epilogo della fiaba, la direzione delle orchestre più prestigiose del mondo: da Berlino a Londra, da Parigi a New York e oltreoceano, torna in mente l’aneddoto di mamma Gilda che volle farlo nascere a Napoli perché in America, un giorno, parlando del luogo di nascita, sarebbe stato complicato spiegare dov’era Molfetta. Più curioso, sinceramente, l’aneddoto di papà Domenico, che gli impose lo studio della musica ma non fu certo profeta, sentenziando dopo pochi solfeggi che non era portato.
Una fiaba italiana, da raccontare sempre e ancor di più in questi giorni di luglio: perché la vita scivolata all’insegna del successo è arrivata al traguardo delle ottanta candeline e Riccardo Muti, ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, ha confidato d’essere stanco di quella stessa vita: «Perché è un mondo in cui non mi riconosco più. E siccome non posso pretendere che il mondo si adatti a me, preferisco togliermi di mezzo. Come nel Falstaff: “Tutto declina”». Tutto è mutato attorno, anche il suo mestiere. Cosa c’entra con lui una direzione d’orchestra «spesso diventata una professione di comodo»? Come può, lui che rimpiange il rigore del liceo, accettare una realtà in cui «Sovente i giovani arrivano a dirigere senza studi lunghi e seri. Affrontano opere monumentali all’inizio dell’attività, basandosi sull’efficienza del gesto, talora della gesticolazione». Difende la libertà di pensiero, denuncia gli eccessi del politicamente corretto, guarda con tenerezza e speranza a un futuro lontano che non gli apparterrà: «L’Italia è piena di teatri del ’700 e dell’800 ancora chiusi. L’ho detto a Franceschini: riapriteli, dateli ai giovani. Formate nuove orchestre: ci sono Regioni che non ne hanno. Aiutate le centinaia di bande che languiscono, ridotte al silenzio da un anno e mezzo, con il disastro economico delle famiglie». Il suo futuro sarà invece uno sguardo posato sui luoghi del cuore, a Castel del Monte, due passi da Molfetta. E quando sarà, lui che di applausi è vissuto, chiederà solo silenzio, perché anche la partecipazione, la commozione, il dolore sono cambiati e fatica a riconoscersi: «Sono cresciuto in un mondo in cui ai funerali c’era un silenzio terrificante. Ognuno era chiuso nel suo vero o falso dolore. Per i più abbienti c’era la banda che eseguiva lo Stabat Mater di Rossini o marce funebri molfettesi, famose in Puglia. I primi applausi li ricordo ai funerali di Totò e della Magnani, ma erano riconoscimenti alla loro capacità di interpretare l’anima di Napoli, di Roma, della nazione. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse il silenzio assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti più intimi».

BaNNER
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