«L’Italia più veloce nelle ripartenze e ora il digitale»

Giacalone: «Nella pandemia l’Europa ha funzionato bene»

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Davide Giacalone: siamo in estate, il Covid concede una tregua. Si può es­sere tranquilli in prospettiva oppure la situazione resta ingarbugliata?
«Tranquilli non ancora, perché le varianti corrono in Europa e nel mondo. Detto ciò se guardiamo all’esperienza inglese, dove sono più avanti sia in fatto di vaccinazioni e al tempo stesso di varianti, c’è da dire che mortalità e gravità dei ricoveri nonostante tutto sono limitate. Questo significa che i vaccini sono efficaci e, comunque, la percentuale dei casi è doppia rispetto alla nostra realtà. Sulla base di questo in Italia possiamo essere moderatamente ottimisti».

Passiamo alla situazione politica, secondo lei è stabile? Draghi fino a che punto porterà avanti il suo programma?
«Da una parte il governo Draghi si è dimostrato molto efficace ed è stato un bene per l’Italia, che recuperato una sua centralità nella politica estera ed europea. Dall’altra, non si può pensare di continuare a delegare ogni decisione a Draghi, non funziona così la democrazia. Ricordiamoci che le forze politiche sono l’anima della democrazia ma non possono passare un’esistenza a discutere prima della mascherina obbligatoria o meno, poi del decreto Zan, poi del referendum sulla giustizia. Si tratta di questioni importanti però il futuro dell’Italia dipende ora dal Recovery Plan e da come verrà applicato. È anomalo che si guardi al governo come a un corpo estraneo sul piano geopolitico».

Incombono i licenziamenti: che cosa accadrà in seguito?
«Dobbiamo premettere che il blocco è sconosciuto nel resto dell’Unione Europea e doveva avere un’applicazione temporanea altrimenti non avrebbe retto. Questo perché non ha senso tenere congelati posti di lavoro non produttivi in generale. Gli strumenti di sostegno invece devono essere dati a chi perde lavoro, ma bisogna pensare anche ad altro, a come ricollocare queste persone che devono riadattarsi, riqualificarsi. Mentre le misure che sostengono lavori improduttivi rappresentano una scelta suicida e va abbandonata».

Ma allora non sarebbe il caso di ripensare profondamente il modello di sviluppo che, specie dopo la pandemia, mostra evidenti segnali di inadeguatezza?
«Noi abbiamo dato per scontato per anni che si potesse usare il deficit nella spesa corrente improduttiva. Non dobbiamo più farlo, questo va cambiato, anche se siamo ancora in deficit e spenderemo in deficit. Ma lo faremo per investimenti. Il modello di sviluppo economico che funziona è quello dell’economia di mercato basata sulla concorrenza e la globalizzazione. Funziona così bene che l’I­talia aveva superato la crisi del 2008 nel suo insieme anche se non tutta l’Italia viaggia alla stessa velocità».

Se si riuscisse a superare l’emergenza, l’Italia saprà ripartire sulla scia dei finanziamenti dal Recovery Plan?
«Sì, se avremo fatto due cose: da una parte se avremo utilizzato gli strumenti d’investimento e dall’altra gli strumenti di riforma. Come sappiamo, se non risolviamo scuola, giustizia, pubblica amministrazione, non cre­sciamo e il mec­canismo ri­mane impallato. Dobbiamo ac­cettare la sfida di uscire dall’immobilismo altrimenti da soli non cresceremo ovvero non lo faremo più del costo del debito».

Lei ha approfondito in un libro l’argomento Europa: a che punto siamo? La pandemia quali conseguenze lascia?
«La reazione della Banca Centrale Europea alla pandemia è la conferma che l’istituzione federale funziona bene ormai da tempo. All’inizio ha sbagliato, ma lo ha capito subito con un approccio espansivo della politica monetaria. La commissione invece ha preso iniziative subito positive che hanno portato a misure per il lavoro, alla sospensione del patto di stabilità, alla copertura dei debiti pubblici e al Next Generation. Poi ci sono i casi come l’Ungheria o la Polonia, per cui gli antipatizzanti sostengono che sia solo un’Unione monetaria, invece in quei casi ha affrontato questioni politiche e di diritto. Il problema è superare l’approccio dell’iter governativo e in parte dei trattati che hanno bisogno dell’unanimità per cui paesi come l’Ungheria hanno potere di veto su questioni umanitarie come le misure contro la Cina per il caso Hong Kong».

Quali settori produttivi possono guidare in Italia l’auspicabile rinascita?
«Sono quelli con cui abbiamo visto crescere l’esportazione anche in un momento drammatico, la riapertura veloce ci ha permesso di essere più competitivi che le aziende tedesche e francesi. Parlo dell’agroalimentare, della moda, la meccanica di precisione. E ora abbiamo l’occasione del Recovery per superare l’arretratezza digitale, dove invece tutta l’Unione è avanti e noi siamo clienti… Ma l’occasione di ammodernare le pubbliche amministrazioni è da non perdere per guadagnare posizioni».

Crede che modelli come quello di Alba e il territorio delle Langhe possano indicare una strada?
«Sì perché qualcuno pensa che la globalizzazione sia solo multinazionale: un errore tragico perché il digitale offre ora all’eccellenza locale un mercato mondiale, si pensi proprio alle cantine vinicole. Possono portare il mercato d’eccellenza locale su un piano globale rimanendo localizzate e anche il prezzo cresce con un ritorno d’investimento. Diventa più grande l’accesso alla vetrina che non significa mettere l’insegna fuori dal negozio ma entrare nel digitale».