Ritanna Armeni, lei è ottimista o pessimista guardando al dopo virus?
«Credo sia difficile per tutti definirsi ottimisti o pessimisti in questa fase, dobbiamo ancora convivere con il problema e non sappiamo come, nel senso che si spera sempre che non ci siano picchi terribili. Se i vaccini si faranno con il ritmo attuale ci sarà un ridimensionamento, un addomesticamento della pandemia con meno terapie intensive. Lo dico però non da scienziata: questa malattia ci ha abituato a sorprese, purtroppo».
Nel sociale le conseguenze si sono già viste.
«Qui, secondo me, siamo tutti troppo ottimisti. È vero che ci sono i fondi e che al Governo abbiamo persone più capaci. Ma è sbagliata l’idea che questi soldi ci arrivino gratis: non è così, non solo vanno restituiti, ma sono legati a un cambiamento del Paese: un processo difficile. Veniamo da anni di inconcludenza, governi incapaci, mancanza di fantasia. Prevedo un periodo più duro nel sociale, con licenziamenti e una ripresa a macchia di leopardo. In più, pagheremo le conseguenze di due anni terribili per scuola e formazione».
Un tema a lei caro è quello del calo delle nascite, sempre più evidente in Italia: perché?
«Da noi è un dato più forte che in altri paesi europei, accentuato anche dalla pandemia. Trasmette in qualche modo la mancanza di fiducia nel futuro che hanno le giovani donne libere. L’aspetto psicologico è importante, la poca fiducia di collegare la libertà alla maternità in questi anni si è accentuata e non accenna a ridursi, anzi. Per le donne oggi mantenere i livelli di emancipazione, conoscere il mondo è qualcosa in fortissimo contrasto con l’idea di maternità. Nel passato si era costrette a diventare mamme per motivi culturali che adesso non sono più vincolanti. Io ridimensiono spesso le spiegazioni economiciste del problema. C’è precariato, un costo della vita in aumento, ma non sono queste le vere le ragioni del calo della natalità. Sono infatti i paesi più poveri, sottosviluppati, quelli dove si fanno più figli».
Ma allora non viene il dubbio che ci sia qualcosa che non va (più) nel nostro modello economico?
«È però una tendenza planetaria, a parte la striscia di Gaza. Anche nei paesi asiatici ormai si fanno meno figli. La Cina, per legge, ha riammesso la possibilità di avere figli in più. La demografia è una scienza complicata. Chiaro, dove sul piatto della bilancia puoi mettere agevolazioni come in Francia (ma parliamo sempre di una media di due figli a famiglia) le cose vanno un po’ meglio. Ma non basta un asilo nido: tutte le soluzioni immaginate dai governi sono irrisorie, ci si illude di poter riparare con iniziative economiche. Non è così. Non si cambiano in questo modo i modelli culturali. Se una donna vuole viaggiare, vivere la sua vita, non la convinci con un asilo nido o un buono da 800 euro all’anno».
Il ruolo delle donne, in questa fase, è ancora più importante?
«Sì, ma gli uomini non se sono accorti del tutto, si stupiscono per il calo della maternità. Viviamo un periodo storico nel quale le donne hanno coscienza del loro ruolo. Si frequentano, si riconoscono. Questo non si esprime in nuove leggi, ma nella realtà sono più autosufficienti. Si aggiunga una scolarizzazione più egalitaria e si capisce che di strada ne è stata fatta, il problema è che gli uomini hanno il potere in mano e non vedono l’evidenza. Per esempio, Draghi, sul tema della natalità, mi ha colpito per l’assoluta non conoscenza del problema, anche se in buona fede».
In un ambiente maschilista, alle donne non resta che adeguarsi per avere successo?
«Il potere si basa su modelli maschili, patriarcato è una parolina vecchia di migliaia di anni. Poi ci sono infiltrazioni, incrinature. Vedo atteggiamenti nuovi nella stessa Merkel o anche da parte di uomini come Biden, ma i meccanismi restano quelli. Se lei pensa che ci sono otto rettrici di università e ben 78 rettori in Italia, su una popolazione scolastica molto femminile, si rende conto della dimensione del problema».
Come si può cambiare?
«Non è una domanda alla quale io possa rispondere. Posso dare un consiglio alle ragazze: studiate il passato e siate più audaci».
C’è bisogno di creatività?
«Sì, c’è un patrimonio di fantasia al femminile che non è cresciuto, fa fatica ad andare avanti, ma questo salto le donne devono farlo per loro, non per altri. Vediamo in certi settori che quando entra una donna le cose si sviluppano in modo diverso».
In Italia, teoricamente, questo processo di trasformazione sarebbe più semplice considerato il patrimonio di talento e creatività?
«Le premesse ci sarebbero, però guardate i titoli dei giornali: “Una donna vince… Una donna al vertice di…”. Significa che essere donna è ancora un’eccezione. E poi, a volte, dalle donne ci si aspetta che siano angeli. Se un deputato, per dire, fa qualcosa che non funziona, non ci si scandalizza più di tanto, se invece in quel ruolo c’è una donna, deve essere più brava, più buona, che faccia il suo lavoro con amore, competenze e anche la giusta cattiveria. E allora questa falsità di considerare a priori migliori le donne, in realtà, è qualcosa che ghettizza».
Torniamo al ruolo ancora una volta decisivo dell’informazione?
«Sì, ma oggi l’informazione si muove in un contesto sempre più precario. Sui social il meccanismo sociale è più democratico, mentre le prime pagine dei grandi giornali hanno pochissime firme femminili. E sono pochi i direttori donna, quindi la verità è che l’informazione è cambiata, a volte in peggio. Allora la maggiore libertà d’espressione sui social è importante».
Chiudiamo con le Langhe: ci è mai stata?
«Certo, un luogo affascinante e storico, anche per i suoi scrittori. Ogni volta che passo, ammiro il paesaggio delle Langhe, per me, che sono del Sud, così nordico e severo nella sua bellezza. Poi, ovvio, per l’attrattiva enogastronomica. Mi piacerebbe venire in autunno, però non è per le tasche di tutti. Da sempre sono affascinata pure da Torino, che ho vissuto ai tempi della grande Fiat, un ricordo importante nella mia formazione».