Lillo e Greg. Greg e Lillo. Da che parte la si legga è sempre un’endiadi difficile da scindere. Una coppia garantita che è garanzia. Dai tempi di “Latte & suoi derivati”, il gruppo musicale fondato nel ’91, i due hanno condiviso trent’anni di umorismo surreale e inoffensivo, come inoffensivo è l’acronimo Lsd: nel dettaglio, latte, yogurt e mozzarelle. Cofondatori de Le Iene e ideatori di Telenauta ’69, omaggio in bianco e nero alla tv degli anni Sessanta, hanno partecipato a trasmissioni cult della migliore satira televisiva, una su tutte, “L’ottavo nano” con il team Dandini-Guzzanti. E poi radio, e poi cinema, e poi e poi anche s-coppiati. Ne parliamo con Greg, all’anagrafe Claudio Gregori, in gran fermento da post lockdown.
È difficile ritrovare l’individualità al di là della coppia?
«Per me non è un problema perché le cose che faccio per la coppia sono poi le stesse che faccio da solo. Bisogna che il pubblico sappia che abbiamo esigenze diverse e che a volte le soddisfiamo separatamente. Io sono più orientato verso il teatro e la musica, Lillo verso i programmi tv e il cinema».
A proposito di cinema avete da poco esordito con “Dna”, una storia in cui converge il tema del doppio, la manipolazione genetica, il bullismo, il cibo spazzatura, uscita sulle piattaforme in pieno lockdown. Com’è andata?
«Ha avuto una buona accoglienza sia su Sky sia su Amazon. Racconta di un professore di biologia che è stato uno studente nerd, bullizzato da una gang di delinquenti che lavora in nero per una ditta di fast food».
Nessuno spoiler per chi non l’ha visto. Mi dica solo come si inserisce il tema del doppio.
«Diciamo che gli esperimenti del professore sul trasferimento del genoma caratteriale avranno un seguito. Il delinquente costringerà il professore a dargli lezione di buone maniere e il professore troverà la cavia per i suoi esperimenti».
Dna è di nuovo un acronimo del sottotitolo: Decisamente non adatti. In cosa Greg non si sente adatto?
«All’ambiente televisivo; la tv di adesso mi sembra un po’ troppo sommaria. Anche la radio in tv non mi entusiasma granché».
Ecco, parliamo della radio. Dal 2003 siete autori (e prima anche conduttori) di 610 su Radio Rai Due…
«Per me la radio sta alla tv come il libro al cinema. Con la radio e il libro ti costruisci il tuo mondo. Attraverso la voce e le parole scritte elabori la tua idea. Non ritrovandotela già pronta, la puoi immaginare. La radio ha un potere suggestivo e visionario».
Il filo conduttore dei vostri lavori, sia in coppia sia in singolo o con altre formazioni, è l’umorismo surreale. C’è un po’ di Beckett nella sua formazione? Io vi vedrei bene in un “Aspettando Godot”. Lei Vladimiro, Lillo Estragone.
«C’è Beckett, Jonesco, Kafka, Pinter. Su “Aspettando Godot” tocca un tasto dolente. Sono almeno quindici anni che lo suggerisco a Lillo, ma non ne vuole sapere. Proietti ci aveva proposto “Anfitrione” di Plauto ma Lillo da quell’orecchio non ci sente. Invece farò “Il calapranzi” di Pinter: ma con Simone Colombari».
Oggi dove si annida il ridicolo?
«Nel trash che non è il kitsch ma il “vorrei ma non posso”: per esempio i rapper che cercano di imitare i rapper americani, ma senza gli stessi mezzi, sia economici sia mentali. E poi nel “politically correct”, nel mondo ipocrita di ecologisti con la pelliccia nascosta nell’armadio o di chi punta il dito su battute rivolte a chi, per esempio, è in sovrappeso».
E scherzare su chi è in sovrappeso è “unpolitically correct”?
«Si possono fare battute su tutto, trovare il lato comico di qualsiasi cosa, purché con buon gusto. Gli ebrei sono i primi a fare battute su loro stessi. Pensiamo a Woody Allen».
So che quest’estate è molto impegnato. Cominciamo dai due spettacoli in cartellone a “E…state al Wood” 2021 di Fregene: “Duo Italia”, con Max Paiella, una ripresa di uno spettacolo fortunato nato a metà degli Anni ’90 e “The humor swing”, già abbastanza indicativo dal titolo.
«“Duo” è uno spettacolo onirico che alterna canzoni della tradizione romanesca
destrutturate e riadattate con due chitarre, più una canzone greca, una rumena e una messicana proposte in modo bizzarro, a letture di brani surreali scritti da noi e che abbiamo in repertorio. Quelle cose che vanno bene con tutto: come il nero».
E come lo “swing”
«In realtà io ho un certo imbarazzo a usare il termine “swing”, perché di solito rinvia a qualcosa di ballabile. Noi invece ci rifacciamo allo swing americano anni ’50 e ’60, che è molto salottiero, pacato. Quello di Dean Martin e Frank Sinatra, cantanti confidenziali che non hanno bisogno di virtuosismi. E anche qui tra una canzone e l’altra racconto aneddoti in maniera umoristica, come facevano loro».
Me ne racconti uno
«All’epoca si beveva tanto. Loro bevevano tanto e anch’io bevo tanto. Ma a me basta un bicchiere: però non ricordo mai se è l’undicesimo o il tredicesimo».
Invece qual è il rapporto di Greg con l’alcol? Non mi dica che è astemio.
«No, per niente. Da ragazzo ci davo giù parecchio, ora con l’età ho acquistato in saggezza ma un buon bicchiere di rosso non me lo faccio mancare».
Quando “ci dava giù parecchio” cosa faceva?
«Il primo concerto l’ho fatto nel ’78 nella palestra della scuola (il “Tacito” di Roma, non proprio un centro sociale nda). Avevo quindici anni e si suonava nelle cantine, sui marciapiedi, nei parchi. Negli anni ’80 a Roma i locali erano tanti e anche le manifestazioni musicali dedicate al rock stavano nascendo in varie parti d’Italia, così sono cominciate le prime tournée, dal Piemonte alla Sicilia».
Era il periodo dei Jolly Rockers?
«Esattamente, una formazione “rock and roll” fondata nell’82, a 19 anni, che successivamente ha ispirato “Chi erano i Jolly Rockers”, una commedia di docu-teatro in cui una band del Tennessee tenta inutilmente la via del successo finché non incontra un misterioso personaggio che glielo offre in cambio dell’anima».
Ha modo di monitorare il rapporto dei giovani con la musica?
«Sì e vedo dei bei focolai di entusiasmo, riconosco un “humus”, la voglia di esprimersi. Forse non hanno una guida ma se dai loro il la, allora partono. I Maneskin sono l’esempio di come anche oggi si possa cominciare dalle cantine, come noi 30 anni fa».
Terminiamo con “Pierino il lupo”, il melologo di Prokoviev che riproporrete a settembre al Teatro Romano di Ostia Antica.
«Un’operazione che avvicina i giovani alla musica strumentale. In questo caso sono la voce recitante, il narratore che entra in un’orchestra e che con essa deve interagire».
A cura di Alessandra Bernocco