Si arricchisce di nuovi tasselli il progetto che, una volta ultimato, regalerà all’Ospedale Michele e Pietro Ferrero di Verduno un parco di 50mila metri quadrati dalla funzione terapeutica. Nelle scorse settimane, è stato presentato il giardino messo a servizio del Dipartimento di Salute Mentale; prossimamente, sarà la volta di quello pensato per il reparto di Radioterapia e, in parallelo, vedranno la luce le aree verdi ideate per i viali di ingresso. Un’iniziativa fortemente voluta dalla Fondazione Ospedale Alba-Bra che ha incontrato il prezioso sostegno della famiglia Ferrero e che, a livello progettuale, si avvale del contributo dell’Università di Milano. IDEA ha colloquiato con il professore Giulio Senes, uno dei due progettisti insieme a Natalia Fumagalli.
Professore Senes, com’è nata l’idea di dotare l’ospedale di Verduno di un grande parco terapeutico?
«Tutto è partito circa tre anni fa da un’intuizione della Fondazione Ospedale Alba-Bra, poi supportata dalla famiglia Ferrero, che si basava su questo presupposto: così come il presidio ospedaliero “entra” nella natura, allo stesso modo, in una sorta di scambio sinergico, la natura deve “entrare” nell’ospedale».
Qual è stato il punto di avvio?
«L’analisi e la progettazione. Siamo partiti dall’individuazione degli spazi che si prestavano alla realizzazione del parco, ovvero aree verdi, corti interne, terrazzi, tetti e cavedi che potessero assumere la funzione terapeutica».
In che modo un’area verde può curare?
«Gli “healing garden”, come vengono definiti nel gergo tecnico, sono giardini in cui gli utenti interagiscono con la natura in modo autonomo, secondo le loro preferenze, traendone benefici “terapeutici” semplicemente dallo “stare nel giardino”; non è necessario alcun intervento attivo di un terapeuta. Chiaramente il giardino deve essere progettato in modo da incentivarne l’utilizzo e da favorire il contatto con la natura, attraverso tutti i sensi».
A Verduno quali aspetti hanno guidato la progettazione degli spazi verdi?
«Considerando che i beneficiari dell’iniziativa non sono soltanto i degenti dell’ospedale, ma anche i loro familiari e il personale sanitario, la progettazione è stata, ed è tutt’ora, partecipativa nel senso che i dettagli di ciascun giardino vengono definiti insieme ai soggetti coinvolti (dagli operatori e dai dirigenti dell’Asl Cn2 alla Fondazione) attraverso una serie di incontri tematici nel corso dei quali vengono fatte emergere le necessità di ciascun reparto. Successivamente, “ordiniamo” le idee e realizziamo il progetto vero e proprio, ipotizzando gli elementi che andranno installati e i relativi costi».
Qual è il ruolo della scienza in tutto questo processo?
«Essenziale. Come avviene negli Stati Uniti, la progettazione degli spazi verdi viene realizzata secondo l’evidenza scientifica».
Qual è stata la risposta degli operatori sanitari?
«Ottima. Il personale sanitario ha percepito le potenzialità degli “healing garden” che, come dicevo, consentono di integrare i servizi offerti dal luogo di cura in cui essi sono inseriti».
Quali sono i tratti distintivi dei giardini di Verduno?
«Ciascuno sarà caratterizzato da qualità proprie, legate alle necessità dei singoli reparti. In alcuni, ad esempio, troveranno spazio anche mangiatoie per accogliere gli uccellini di passaggio, fiori che favoriscono la presenza di insetti oppure particolari fontane che consentiranno ai degenti di provare un’esperienza sensoriale ed emozionale unica, oltre a particolari soluzioni per portare l’illuminazione dove non arriva la luce del sole. Per quanto riguarda alberi e piante, verranno messe a dimora specie autoctone o, comunque, tipiche, seppure non originarie della zona».
È l’approccio che dovrà guidare anche l’ammodernamento delle nostre città?
«Come dimostrano alcune ricerche che abbiamo condotto insieme ad esperti austriaci e polacchi, il Covid ha avuto effetti psicologici maggiori su chi, durante il lockdown, non ha potuto vivere a contatto con il verde. Segno che la svolta sostenibile, soprattutto nel mondo occidentale, è ormai una necessità e rappresenta una sfida non più rinviabile, anche alla luce dei mutamenti climatici in atto».