Ha appena dismesso i panni di una donna che fu mito e icona di un’epoca. Temporaneamente, dopo il debutto alla 43esima edizione di Asti Teatro e in attesa di indossarli a lungo e di nuovo (lo spettacolo sarà in scena al Teatro Menotti di Milano, dal 5 al 17 ottobre). Romina Mondello racconta la sua Jackie, intima e riposta, così come non la si sa.
Prima di parlare di Jackie Kennedy mi racconta com’è andato il debutto?
«La parola che mi viene è avvolgente. Un abbraccio pieno di calore da parte del pubblico che non vedeva l’ora di tornare a teatro e di condividere un momento tanto atteso. E, a parte la pandemia, questo è davvero uno spettacolo che abbraccia».
Sola in scena a dare voce a un mito: una doppia sfida?
«La vera sfida è quella di mettere in scena una donna di cui si conosce l’aspetto pubblico ma molto meno quello privato. La sua parte nuda. In realtà sono sì sola in scena ma insieme a me ci sono dei fantocci che rappresentano le persone e i personaggi che hanno attraversato la sua vita. John, la madre, la sua segretaria, le cognate, i figli avuti e quelli mai nati, e Marylin».
Jackie e Marylin: due icone a confronto
«È la contrapposizione tra due donne, due modi di essere. Marylin è la carne e la luce, Jackie il prodotto della luce, “estratta dallo spazio e dall’oscurità”, si dice nel testo. Ma si dice anche che Marylin non avesse capito di essere luce né che nulla è più vulnerabile della luce. Perché poi arriva il buio e la notte torna dopo ogni giorno».
C’è una grande pessimismo di fondo, mi sembra.
«Sì, ma c’è anche un sottaciuto desiderio di riemergere e di risalire. Di lasciare dietro di sé qualcosa che resti e in un altrove possa continuare. Noi raccontiamo l’ultimo respiro di Jackie, difficile da collocare in senso spazio-temporale. Un viaggio dentro e fuori fatto di tormenti, speranze, proiezioni, incontri. In certi momenti si sfiora anche l’effetto “sliding doors”, il “cosa sarebbe successo se…”».
Magari se non avesse sposato John. Quali erano i suoi sogni non realizzati?
«Aveva un gran bisogno di essere amata e scriveva poesie. La madre le disse: “avere tempo per la poesia è utile ma è più utile se sono i vestiti a esser poesia”».
Però alla fine le ha dato retta.
«Infatti. In questo senso dico che è stata la burattinaia della sua vita con i fili sbagliati. La madre la spinge a sviluppare la parte peggiore di sé e John l’ha più volte privata della possibilità di essere madre. Ha avuto tanti aborti e grandi dolori. Ma è stata al gioco godendo di tutti i privilegi del caso».
Il testo dello spettacolo è tratto da quello omonimo di Efriede Jelinek (Nobel per la letteratura 2004). Quanto si discosta l’adattamento dalla versione autografa?
«L’abbiamo solo reso più semplice e fruibile, cercando di restituire un personaggio con un arco narrativo preciso, scandito in dieci capitoli, ma consequenziali, che formano un unico corpus.
La regia è firmata da Emilio Russo che già diresse la Medea di cui lei stessa firmò l’adattamento. Una coppia collaudata?
«Sì. C’è grande complicità e comprensione. Emilio è un ottimo ascoltatore ed è in grado di guardarmi con uno sguardo che mi appartiene. Mi sento guidata nel mio essere libera».
Parliamo di questa Medea che debuttò al Teatro Olimpico di Vicenza, uno dei teatri più belli del mondo. Si prevede una ripresa?
«Contiamo proprio di sì. Un luogo magico, l’Olimpico, e una tappa importantissima nel mio percorso. Ho affrontato Medea con una certa incoscienza e il desiderio di buttarmi in un’esperienza nuova. L’adattamento si è basato prevalentemente sulla tragedia di Euripide che mette al centro il tema dell’abbandono. Medea è stata abbandonata da Giasone eppure per lui aveva abbandonato la sua patria, trovandosi a essere donna in una terra straniera. Un tema non solo moderno ma purtroppo attuale. Come lo è il dolore per l’impossibilità di tenere con sé i propri figli che la porta a ucciderli per evitare che vengano uccisi da altri. Interpretando Jackie dopo Medea mi sono resa conto che anche lei è un’eroina tragica».
Veniamo ai suoi esordi, giovanissima vincitrice di concorsi di bellezza. Oggi che rapporto ha con la sua immagine?
«Allora ero inconsapevole ed erano gli altri a incoraggiarmi e a farmelo notare. Oggi ho un rapporto molto naturale con il mio corpo e non ho mai fatto ricorso a espedienti di nessuna natura».
Allude alla chirurgia estetica?
«Sì e credo che oggi se ne faccia grande abuso. Mi spaventa l’idea che si possa ricorrere alla chirurgia per assomigliare a qualcuno, per rispondere a modelli stereotipati. A monte credo ci sia una grande insicurezza e problemi di identità».
Come si mantiene in forma?
«Facendo il mio lavoro e facendo la mamma di Lupo, mio figlio, che sta per compiere 18 anni».
Un futuro da attore?
«No. L’ho sempre portato con me sul set e in teatro ed è affascinato, ma non attratto. È uno sportivo e pratica scherma a livello agonistico. Ora, per esempio, è in ritiro con la Nazionale».
Invece Romina da piccola voleva fare l’attrice?
«No, il medico. L’attrice posso dire di avere deciso di farla dopo che è nato Lupo. Mi sono scoperta giovane madre e siamo cresciuti insieme. Ho imparato tantissimo da lui».
Veniamo a un film particolarmente significativo, oggi. Aspromonte-La terra degli ultimi, del 2019, diretto da Mimmo Calopresti. Un pensiero per l’Aspromonte?
«Faccio arrivare il mio abbraccio alla Calabria e lo estendo a tutti quelli che soffrono. Credo che non si debba abbassare la guardia e che sia necessario uno sguardo ampio e costante, non solo un occhio di bue concentrato su una questione. Anche ora che abbiamo la giustificazione del Covid, non chiudiamoci nel nostro egoismo perché ci facciamo del male. Troviamo la forza di girare la medaglia».
Lei vive in campagna, fuori Roma. Qual è il suo rapporto con la natura e l’ambiente?
«Sono eco da sempre. Evito gli sprechi, soprattutto dell’acqua, faccio la raccolta differenziata, tratto la natura come la padrona del mondo, quale è. E credo che le piccole attenzioni quotidiane, se fossero di tutti, potrebbero fare la grande differenza».
Il suo fiore preferito?
«I fiori di campo. Quelli selvatici, che crescono spontanei, soprattutto bianchi ché il bianco è il mio colore preferito, oppure rosa. Tra i fiori coltivati invece scelgo le peonie».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco