“Qui si estraeva l’uranio. Qui molti uomini lasciarono la loro salute”. La targa è nascosta tra le foglie, sui ruderi dell’antica miniera della Val Fredda. Per raggiungerla occorre percorrere un sentiero tra i boschi, partendo da San Giovenale di Peveragno; negli anni Cinquanta, al culmine della loro espansione, le gallerie di estrazione scendevano fino a 485 metri al di sotto del suolo, divise su tre discenderie. Non è rimasto molto di quei tunnel: gli ingressi vennero fatti crollare quando la miniera chiuse, per evitare che qualcuno potesse entrarvi e ritrovarsi in una situazione di potenziale pericolo.
Eppure, le rovine della Val Fredda raccontano ancora molte storie di un periodo, quello dal 1949 al 1962, in cui l’estrazione di uranio rappresentava una grande speranza di ricchezza per la gente del posto.
Un’euforia tanto diffusa quanto dannosa: all’epoca, infatti, i rischi legati alla radioattività non erano ancora così conosciuti. Elementi come il radio e l’uranio sembravano emettere un’energia sconosciuta e misteriosa praticamente dal nulla. «Quando vennero scoperte, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, queste sostanze vennero considerate una cura contro qualsiasi malattia e inserite tra gli ingredienti di beni di consumo come dentifrici, creme, ciprie, cioccolato, saponette», spiega Sofia Lincos, studiosa e volontaria del Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze (Cicap), «Si trattò di una vera e propria moda che investì anche il Piemonte. Molte acque della zona facevano a gara per proclamarsi “radioattive”. A Torino il dottor Carlo Precerutti inventò i primi occhiali con lenti al radio: promettevano di curare i problemi di vista, oltre a correggerli. Andava per la maggiore anche un alcolico: il Beta Martinazzi, presentato come l’aperitivo radioattivo che ionizza il sangue. Le pubblicità consigliavano di berlo prima di mettersi alla guida, per cancellare la sonnolenza».
La Seconda Guerra Mondiale portò una nuova ondata di interesse per i minerali radioattivi: l’uranio non era solo una curiosità scientifica dai dubbi effetti terapeutici, poteva essere la chiave per l’indipendenza energetica dell’Italia. «Diverse aziende si buttarono nel business», dice Lincos, «Fu la Montecatini, che possedeva già diverse miniere di zolfo, a intuire che nel Cuneese c’era il potenziale per un’attività economicamente favorevole. Nel 1946 i tecnici scandagliarono i monti della zona: armati di contatore Geiger, risalirono il torrente Bedale fino a Tetto Giordano, dove scoprirono un ricco filone uranifero. Era l’inizio della miniera della Val Fredda».
Diversamente da quanto accadrebbe ora, la caccia all’uranio fu accolta con grande entusiasmo dalla popolazione locale, dalle autorità e dalla stampa: «Si pensava che avrebbe fatto accorrere frotte di turisti, pronti a beneficiare della salubre radioattività dei luoghi», racconta ancora Lincos, «Nei ristoranti si cominciarono a servire i funghi all’uranio, specialità di Peveragno: ovviamente era solo un nome, ma un nome che attirava e che veniva utilizzato per tutto. Il 1954, ad esempio, vide l’elezione di Miss Uranio: primo premio, una statuetta realizzata con minerali delle miniere. L’anno dopo, sarà un’immagine di Santa Barbara, patrona dei minatori, a essere portata in processione adornata con rocce radioattive: dal basso, una lampada a ultravioletti faceva brillare la sua corona di una luce quasi sovrannaturale».
La miniera arrivò a contare 48 dipendenti, molti dei quali pagati a cottimo. «Purtroppo, all’epoca, le leggi a tutela dei lavoratori non erano ancora così avanzate come quelle dei giorni nostri. Gli scavi venivano fatti “a secco”, con perforatrici ad aria compressa, che riempivano le gallerie di polveri. Molti minatori, respirandole, si ammalarono». Bisogna arrivare alla fine degli anni Cinquanta perché l’uranio cominci a non esser più considerato una desiderabile “fonte di vita”: i primi decessi tra i lavoratori della miniera cambiarono molto la percezione del rischio associato alle estrazioni. Un cartello, nello spiazzo antistante la miniera, riporta oggi i nomi di chi in quel posto perse la propria salute: almeno 22 persone morirono di silicosi, una forma di leucemia provocata dall’inalazione di silice che spesso colpisce minatori e cavatori.
La miniera della Val Fredda fu chiusa all’inizio degli anni Sessanta, principalmente per ragioni economiche: «I filoni principali si erano esauriti, scavare ancora era un gioco che non valeva la candela», conclude Lincos, «Percorrere i sentieri dei boschi della Val Fredda, oggi, significa rievocare quei tempi di ingenuo entusiasmo e di pericolose illusioni: un modo per riflettere, per capire e per ricordare».
Articolo a cura di Adriana Riccomagno