Nell’anniversario dei settecento anni dalla morte di Dante, il Coumboscuro Centre Prouvençal ha dedicato un forum al “sommo poeta”. Il padre nobile della lingua italiana, infatti, aveva grande rispetto dell’idioma dei trovatori, tanto da citare Arnaud Daniel sia nel “De vulgari eloquentia” sia nella Divina Commedia (dove lo fa parlare nella sua lingua madre).
In questa giornata gli invitati speciali fanno parte di un gruppo che, tramite l’amicizia con Fabrizio De André, fu già ospite al Roumiage del ‘93: abbiamo scambiato quindi due parole con Gino Marielli, fondatore dei Tazenda con Gigi Camedda e il compianto Andrea Parodi.
Gino, come è nata l’idea di cantare in sardo?
«In realtà quando iniziammo a suonare con il Coro degli Angeli eravamo un po’ malati di esterofilia. Avevamo preparato un disco interamente in inglese, ma ci trovammo davanti allo scoglio economico della produzione. Il titolare della sala di registrazione ci fece una proposta: non ci avrebbe chiesto soldi, ma in cambio avremmo dovuto registrare anche un disco di canzoni tradizionali sarde. Scegliemmo quindi “No potho reposare”, “Nanneddu meu”, “Deus ti salvet Maria” e alcuni testi del poeta Antonio Strinna musicati da noi. Il lavoro intitolato “Misterios” fu un successo in Sardegna, ma il nostro sogno era di cantare in inglese, così Andrea fissò un appuntamento con la Ricordi dove la direttrice artistica era Mara Maionchi. Ascoltato il nostro disco in inglese ci disse: “Bello, interessante… avete qualcos’altro?” La prima risposta fu “No”, ma dopo un po’ di insistenza tirammo fuori “Misterios”: ne fu entusiasta. Poi ci disse: “Tornate a casa, scrivete dieci pezzi nuovi in sardo trattando la parte musicale con la stessa cura usata nelle canzoni in inglese».
Praticamente vi indicò la strada da seguire…
«Esatto. Tornati a casa, non sapevamo però scrivere in sardo. Così comprai libri di grammatica e di poesie in sardo, li studiai, iniziai a scrivere qualcosa e feci correggere tutto da esperti in materia, senza crearmi grossi problemi delle varianti».
E come nacquero i Tazenda?
«Andrea, Gigi e io decidemmo di proseguire per la nostra strada, ma subito non individuammo un nome. Quando ci trovammo da un giorno all’altro a dovercene dare uno per una serata pensammo a un libro di Asimov che avevo letto io e poi avevo prestato a Gigi. Lì c’erano i nomi di tre pianeti: Tranton, Terminus e Tazenda. La scelta cadde sull’ultimo.
Di lì a poco grandi collaborazioni con De André, Bertoli, Maria Carta e molti altri. Eravate consapevoli di quale treno stava passando?
«Allora, benché trentenni, eravamo ancora molto giovani, vedevamo tutto con entusiasmo, senza paura. Vivevamo il tutto con un fuoco dentro, come il matto dei tarocchi che non sa dove va. Solo più tardi iniziammo a capire che cosa ci avevano lasciato. Frequentando De André, Bertoli e Maria Carta cercammo di assorbire tutto, non solo dalle loro parole, ma soprattutto dal carisma e dal modo di vedere la vita».
Nelle nostre montagne piemontesi ci vede qualcosa di Sardegna?
«Se non bruciasse… scherzi a parte, il nostro ecosistema è isolato e molto delicato e questo è stato un anno tragico, comunque nella zona dell’Ogliastra c’è un paesaggio simile a questo, con strade strette e montagne selvagge. Poi c’è il senso d’identità, qui c’è il Roumiage e da noi c’è Cortes Apertas, una manifestazione che si svolge in più paesi dove si entra nei cortili delle case per vedere gli antichi mestieri».
E la musica?
«La tradizione più conosciuta è il canto a tenore, tipico della zona centrale della Sardegna; poi ogni zona ha le sue feste, per esempio a maggio da noi a Sassari c’è la Cavalcata sarda. In queste feste canti e balli interpretati da vari gruppi folkloristici di tutta la Sardegna si fondono in una festa unica».
Come riassumeresti la vostra trentennale carriera legata alla musica tradizionale?
«Fabrizio De André ci regalò una frase all’epoca dell’album “Limba”: “Per scambiare le proprie opinioni o per commerciare patate è utile che ognuno di noi conosca la lingua dell’acquirente. Per esprimere la propria creatività è indispensabile che ognuno di noi si serva della propria lingua».
Articolo a cura di Valter Bergesio