Acchiappare Paolo Fresu è una di quelle imprese che richiede costanza. Ma quando ci riesci è proprio un piacere ascoltarlo parlare. Basta un input e ti si aprono mondi. La musica, chiaramente, ma anche il cibo, gli amici, le passioni che corrono attraverso i cinque sensi. La musica, per esempio, comincia con l’olfatto.
Mi spieghi il nesso.
«Per me la musica ha l’odore dell’olio dei pistoni della tromba, quello che serve anche per lubrificare le vecchie macchine per cucire. La prima volta che ho maneggiato una tromba era quella di mio fratello. Ero attratto dalla custodia di legno scuro foderata di velluto rosso che riposava sulla libreria e odorava di olio dei pistoni».
E poi ha incominciato a suonarla nella banda del paese (Berchidda, in provincia di Sassari, nda), da ragazzino.
«Avevo 11 anni e il jazz era ancora lontano. L’avrei scoperto più tardi, prima al conservatorio di Sassari e poi grazie ai seminari che si tenevano a Siena dove conobbi il maestro Bruno Tommaso che mi aprì la strada, cominciando da Roma».
Una strada piena di incontri e contaminazioni. La sua musica è un jazz variamente “contaminato”: di musica etnica, world music, musica contemporanea, antica, pop, classica, rock. E a proposito di rock parliamo di “Heroes”, il tributo a David Bowie. Com’è nato questo progetto?
«Si tratta di una committenza da parte del comune toscano di Monsummano Terme. Nel 1969 un David Bowie non ancora famoso partecipò a un concorso canoro organizzato dalla città, ma non vinse: arrivò secondo (ride, nda)».
Un peso sulla coscienza…
«Infatti. Dopo cinquant’anni abbiamo cercato di riparare con un concerto nella stessa piazza».
Quali sono state le maggiori difficoltà?
«La difficoltà è stata solo iniziale. Io non conoscevo così bene Bowie e quando l’ho approfondito mi sono accorto di quanto la sua musica sia densa, complessa, non lineare all’ascolto, una musica che scarta di lato, con cambi repentini. Una particolarità e originalità che si capisce solo dopo averla ascoltata ripetutamente e a fondo».
E una volta afferrata è andato tutto liscio?
«Sì, nel senso che una volta concepito il progetto e selezionati i pezzi, non ci siamo più posti il problema. Certamente abbiamo voluto rispettare la sua riconoscibilità ma realizzando un progetto nostro, autonomo, omaggiando il suo coraggio e la sua capacità di spaziare. Non volevamo realizzare una cover ma che lui fosse con noi».
Com’è avvenuta la selezione dei pezzi?
«Selezionare tredici brani dal suo intero repertorio non è stato facile. Siamo partiti dalla fine, con “Rebel Rebel” e siamo arrivati agli anni Settanta con “Heroes”, il secondo album della Trilogia Berlinese. La selezione è avvenuta anche pensando alla voce magnifica e spiazzante di Petra Magoni. Ho subito pensato a lei quando mi hanno proposto il progetto. E agli altri compagni di viaggio».
Ho notato che durante un assolo del batterista lei se ne stava rannicchiato, quasi nascosto, a osservarlo, rapito.
«Io sono sempre rapito quando Christian parte con quel pezzo. Lui è un virtuoso del genere, la sua è una parte molto robusta dello spettacolo e il suo “sound” traghetta il progetto verso il pop».
Concerto a parte, parliamo del cofanetto composto da tre cd, uscito per i suoi sessant’anni.
«Si tratta di due nuovi album, “The Sun on the Sea” e “Heroes”, più la ristampa di un disco ormai introvabile, “Heartland”, realizzato con David Linx e Diederik Wissels più il suono di un quartetto d’archi e la ritmica composta da Palle Danielsson e da Jon Christensen».
Curiosa anche la grafica: P6OLO FR3SU.
«È realizzata col “leet”, una forma che utilizza caratteri non alfabetici usata molto sui social. Ci piaceva questo gioco ed è anche un omaggio al linguaggio della contemporaneità».
Ha suonato in tutti i teatri in Italia e nel mondo: ce n’è uno in cui ha lasciato il cuore?
«Il cuore lo lascio soprattutto nei luoghi inattesi, che sono i più belli. Le Dolomiti, in mezzo a un bosco, oppure nel Cottolengo di Bosa, in provincia di Oristano, o nel carcere minorile di Quartucciu. I luoghi dove ho vissuto le emozioni più forti sono legati alla gente che li abita, dove c’è più bisogno. Una geografia umana e dell’anima dove la musica mostra la sua valenza e il suo significato sociale».
In Piemonte viene spesso, ospite non solo gradito ma molto corteggiato, amico, tra l’altro, di Oscar Farinetti e Carlo Petrini. È vero che è un gourmet?
«È vero. Amo molto i sapori decisi quindi la bagna cauda, il brasato al Barolo. E poi i vini della grande tradizione, dai più semplici al Barolo e al Barbaresco. Generalmente non amo i dolci, ma cedo al bonet».
Lasciamoci con il ricordo di un piemontese molto amato che fu suo caro amico: Gianmaria Testa.
«Ho tanti ricordi di Gianmaria. L’ultima volta che ci siamo sentiti era durante la malattia. Ma qualche tempo prima, ottobre 2013, a Zurigo, abbiamo portato uno spettacolo in duo, tromba, chitarra, voce, un po’ di elettronica. Due sere soltanto. Gianmaria era provato, ma con una grande energia e la convinzione di avercela fatta».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco