La malinconia del tramonto. La sincerità della confidenza. La dignità dell’accettazione. Le tortuosità della vita. Le trappole del destino e del tempo. L’umanità dell’abbattimento. La forza. La battaglia. Phil Collins si racconta alla Bbc e noi solchiamo un oceano di riflessioni, intristiti e un poco stupiti, spiazzati dinanzi alla sofferenza di un totem. Gli eroi sono tutti giovani e belli? No, invecchiano e, come noi, s’imbattono in problemi e acciacchi. Talvolta li scoprono pure giovani. Phil non aveva ancora sessant’anni quando subì la prima operazione chirurgica alla schiena, poi è stata necessaria una seconda, e oggi che ne ha settanta sconta gravissime conseguenze sui nervi che ne ingabbiano l’arte e ne zavorrano i sogni, spezzano il filo di una carriera leggendaria con i Genesis, batterista tra i più grandi di sempre, benché lui sia stato anche voce e abbia spopolato come solista e sappia danzare su più strumenti con identica emozione.
L’uomo che percuoteva con tocco unico tamburi e piatti, che muoveva charleston e cassa annodando sound sperimentale e pop commerciale, che sapeva incantare con l’aggressività e la delicatezza, con la commistione dei ritmi, con la forza dell’istinto e la perfezione dello studio, con le derivazioni di Robert Wyatt intrecciate a quelle di Pierre Moerlen, con la muscolarità che sfuma nell’armonia, quell’uomo che ha stupito con straordinari assoli, confessa pubblicamente di non riuscire più a suonare: “A malapena riesco a tenere una bacchetta in mano”. Non potrà dunque affrontare alla batteria la reunion della band, lascerà lo sgabello al figlio Nicholas, detto Nic: “Sono un fisicamente usurato, il che è molto frustrante perché mi piacerebbe suonare lassù insieme a lui. Suona come me quando vuole. Sono uno dei suoi tanti influencer, essendo suo padre: sul palco ha un po’ il mio stesso atteggiamento, quindi è un buon inizio”.
Frustrante. Phil non si nasconde. Ma al di là dello scoramento che assale, che annerisce pensieri e momenti nell’arco del giorno, che ha contribuito a portarlo come confessa in un libro a vivere a depressione e sfiorare l’alcolismo, indossa la corazza e non molla, prova a ribellarsi, almeno adattarsi. E la poliedricità artistica che è stata valore aggiunto diventa appiglio, scudo, difesa. Canterà. Come ha fatto nel gruppo dopo l’addio di Peter Gabriel e da solista. Solo che lo farà da seduto. Come purtroppo succede da un pezzo. Com’è prassi nel tour che è forse l’ultimo dei Genesis, sicuramente l’ultimo suo: ha anticipato a Mojo che il concerto di Boston a dicembre, data conclusiva, sarà la “dead line” personale. Saranno poi Tony Banks e Mike Rutherford, settantenni anch’essi, a decidere se proseguire, magari con Collins junior, o scrivere, dopo mezzo secolo e milioni di dischi, il loro “the end”.
Phil si ferma. Gladiatore nello spirito ma fiaccato nel corpo, senza più sensibilità alle mani ch’erano strumenti anch’essi e con un bastone per accompagnare il cammino, con il diabete che peggiora la salute già minata dalla lesione spinale. Si ferma. Come tutti, prima o poi. Gli eroi, pur giovani e belli, non sempre fanno eccezione.
Le mani di Phil
Collins confida in un’intervista di non poter suonare più la batteria, di faticare perfino a tenere le bacchette, e noi ci scopriamo ancora più fragili: il tempo e il destino dipingono tramonti malinconici e nemmeno i miti fanno eccezione