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«Nell’epoca digitale bisogna pedalare senza mai fermarsi»

In sella alla sua inseparabile bicicletta l’imprenditore Giorgio Proglio continua a far crescere il suo progetto

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Un paladino digitale con al guinzaglio un cane da tartufo: Giorgio Proglio è “Mister Tabui”. Ma un’app di successo non na­sce dal nulla. Dietro ci sono due decenni di esperienza come imprenditore e una ri­flessione continua sul mon­do del web. Soprattutto men­tre esplora le Langhe sulle due ruote.

Cosa c’è stato nella sua vita prima di Tabui?

«Prima di arrivare ad Alba, sono nato e ho vissuto a Torino fino all’età di 15 anni, con la mamma casalinga e il papà che lavorava all’Istituto Zooprofilattico. Ho sempre avu­to la passione per l’informatica, sin da piccolo; ho frequentato l’Istituto Tecnico di Fossano e sono diventato un perito informatico. Prima di mettermi in proprio, ho lavorato alla Miroglio, però avevo in testa di creare qualcosa di mio. Così, ai tempi in cui si sgonfiava la grande bolla del commercio elettronico, è nata Zetabi. Era il giorno del mio compleanno di vent’anni fa: 27 febbraio 2001».

Cos’è successo in rete in due decenni?

«È cambiato moltissimo e per assurdo, allo stesso tempo, poco. I siti web ci sono anche adesso ma sono diversi i mezzi. Fino a cinque anni fa mandavamo Sms, mentre og­gi non possiamo fare a meno di WhatsApp. Lo smartphone non esisteva e ora è un terzo braccio. L’autostrada è sempre la stessa, Internet, ma la comunicazione è sempre più veloce. Un aiuto incredibile in tutti gli ambiti, dalla medicina allo sviluppo meccanico, ma si possono generare grandi problemi di abuso o dipendenza dai social network op­pure di violazioni della privacy. Faccio mia la frase se­con­do cui oggi le guerre sono costituite da attacchi informatici: basti pensare a come il blocco di un’Asl, di una Pro­vin­cia, di una Regione o di uno Stato possa mandare in cri­­si l’intero apparato sociale».

Cosa prevede per il futuro?
«Mi piace pensare a come sarà fra vent’anni, ma non lo so: è impossibile da immaginare. Non mi spaventa. I miei figli possono usare smartphone e tablet purché con consapevolezza. Non condivido l’approccio “meglio che non li tocchino fino a 15 anni”: la direzione è quella e sarà sempre più veloce, tanto vale che conoscano gli strumenti».

Com’è nata l’idea dell’app?
«È qualcosa che avevo in testa da anni. Girando l’Italia per lavoro e portando spesso con me la bici, mi sono reso conto che bisognava scaricare l’app dei sentieri, quella delle strade, un’altra per i musei e una per i ristoranti. Perché non un’app unica, mi chiedevo, ma mancavano il coraggio e le risorse. Un giorno, dopo uno scontro in bici nei boschi di La Morra con un tour operator norvegese che veniva a tracciare i percorsi prima di portare i turisti, è scattata la scintilla: era arrivato il mo­mento di farlo».

A che punto è il progetto?

«Siamo partiti dalle Langhe per estenderla poi a tutto il Pae­­se. Oggi l’app ha superato i 107mila utenti e l’obiettivo è l’Europa: stiamo mappando le capitali. L’uscita di Tabui “al mare” è stata un successo: grazie alla realtà aumentata si può scoprire cosa c’è sulla costa. Per il 29 del mese abbiamo in programma “L’e­ven­to che non si può dire”, un grande annuncio che per ora dobbiamo tenere riservato».

È in arrivo l’obbligo del “green pass” sul posto di lavoro: come valuta tale stretta?
«Nella nostra azienda ce l’abbiamo tutti e lo vedo in modo molto positivo, ma in generale la mia idea è che non si possa obbligare nessuno a fare alcunché. Per quanto mi riguarda, sono convinto che vaccinarsi sia un dovere: l’ho fatto per me, per la mia famiglia e per le persone che mi stanno intorno, ma non giudico chi ha un’idea diversa. Da imprenditore, ritengo il “green pass” fondamentale; per esperienza diretta, l’anno scorso, mi sono reso conto di come un contagio, anche in un’attività piccola come la nostra, possa creare non pochi disagi: basta un positivo per trovarsi tutti in quarantena. La fortuna di poter lavorare anche a distanza come agenzia digitale ha fatto sì che la nostra produzione sia cresciuta del 20% nonostante il periodo di lockdown, ma non si può pensare a un telelavoro a oltranza».

Perché? È contrario? Cosa pen­sa dello smartworking?

«Va bene se alternato al lavoro in presenza, non “da adesso tutti a casa per sei mesi”».

Ma lei a casa è sempre in smartworking? E, soprattutto, cosa fa quando non lavora?

«Lavoro. Diventare un im­prenditore significa esserlo 24 ore su 24 e questo, nel mio caso, vale per tutti i progetti e soprattutto per il “mondo Tabui”, che è un po’ il mio terzo figlio. In ogni momento penso cose nuove e qualsiasi stimolo si rivela uti­le. Appena posso vado in bicicletta o a nuotare e sto tan­tissimo con i miei figli. Mia moglie fa i turni in ospedale e mi organizzo volentieri per es­sere con i bimbi quando non c’è: lo faccio con piacere. Cerco di alternare lavoro, scuola e sport: è la mia costante».

Articolo a cura di Adriana Riccomagno