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«Più di ogni altra cosa mi spaventa chi non è curioso»

Lo scrittore Fabio Genovesi mette in guardia sulla differenza tra semplicità e facilità e proprio non capisce chi si annoia

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Basta inoltrarsi per qualche pagina nel suo ultimo suo libro “Il calamaro gigante”, per comprendere come si tratti di un romanzo da leggere a voce alta, un racconto da condividere. Una caratteristica che è propria non solo della sua ultima fatica (parola che non si addice, come scopriremo in seguito) letteraria di Fabio Genovesi. Uno che capta intorno a se e dal suo vissuto le storie e poi le racconta, sotto forma di romanzo, articolo o servizio televisivo. Molto amato dai suoi lettori per uno stile inconfondibile, allo stesso tempo immediato e profondo, è conosciuto dal grande pubblico come voce d’autore delle telecronache Rai di Giro d’Italia e Tour del France. Dà il meglio di sé nelle presentazioni e negli incontri, ma anche al telefono dimostra di sapere come conquistare l’interlocutore.

Fabio, l’idea per cui se uno non avesse avuto la vita che ha avuto non avrebbe scritto i libri che ha scritto, vale forse per tutti gli autori. Ma per lei più che per altri…

«Assolutamente, in particolare mi ha segnato la fortuna di nascere sul mare. Mia madre e mia nonna facevano le pulizie in uno stabilimento balneare e mi portavano con loro, dunque vivevo tutto il giorno sulla spiaggia da maggio fino a ottobre inoltrato. Per me quella era la normalità e il mare era davvero casa mia. Mi sono accorto che esistevano posti senza mare solo verso i dieci anni, quando andai a Firenze con il mio babbo. Prima per me era impensabile».

Oltre a esser nato sul mare, pensa l’abbia influenzata anche la realtà di provincia in cui ha vissuto e vive?
«Sicuramente ha influito. Nascere e vivere in un posto turistico come la Versilia è strano, perché posti come questo hanno questa caratteristica di essere due in uno: Forte dei Marmi per due mesi è Las Vegas e per dieci è la Transilvania! Quando sei piccolo questa cosa ti dà la sensazione di una vita schizofrenica; a fine stagione gli altri bambini tornano a Roma, Milano, Torino, e tu non torni da nessuna parte. Ti chiedi “Ma io dove torno? Di dove sono io?”. Ti senti un po’ come gli ombrelloni che vengono messi nel magazzino per l’inverno. È una sensazione particolare che provavo da ragazzino, ma in fondo è l’ho ritrovata anche nel lavoro che faccio: hai il momento in cui scrivi, sei solo e stai fermo, e quello in cui vai in giro a presentare un libro e non dormi mai due sere di fila nello stesso letto. A ben guardare è una vita a doppia marcia, proprio come l’estate e l’inverno in Versilia».

Quando ha avuto chiaro che scrivere sarebbe stato il suo mestiere?
«Ogni giorno mi sveglio e mi stupisco. Ancora oggi non me ne capacito. Quando qualche scrittore mi definisce “collega”, a me viene da chiedergli “Collega? Allora spiegami che lavoro faccio!”, perché per me è veramente una passione. Di certo che stia scrivendo, parlando dei miei libri a un festival o commentando il Giro o il Tour continuo a fare lo stesso lavoro: vivere storie e raccontare storie».

A proposito del commento al Giro e al Tour, non sono tanti gli scrittori che sono riusciti ad avere uno spazio di quel tipo, rivolgendosi a una platea così ampia. Vengono in mente nomi illustri, come quello di Buzzati…
«Vero. La prima volta che com­mentai il Giro lo feci per altro per il Corriere della Sera, lo stesso giornale di Buzzati e di altri nomi che fanno girare la testa. Se ci avessi pensato per bene, mi sarei sentito male. Il mio grande vantaggio è che non penso troppo prima di fare le cose. Mi sono detto “Andiamo!” e così mi sono ritrovato poi a farlo per la Rai, parlando a milioni di persone. È una grande responsabilità e una preoccupazione per certi versi, ma è anche un enorme stimolo, un piacere e un onore».

Restando in ambito ciclistico, la sua prosa sembra frutto di uno scalatore che si impegna ma non fatica. È così?
«Per certi versi sì, nel senso che quando sento altri parlare della grande sofferenza della scrittura strabuzzo gli occhi: anche se richiede tempo e lavoro, non la definirei mai una sofferenza! È vero però che scrivo e riscrivo molto per fare in modo che la lettura sia poi il più possibile naturale e immediata, perché il lettore non debba faticare troppo. Non amo gli scrittori che rendono tutto nebbioso per sembrar loro più intelligenti. Per me il lavoro dello scrittore non è dover esibire, ma far vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti e mostrare che non ci sono cose astruse, che tutto ci può essere vicino se raccontato nella maniera giusta. Preferisco stupire con cose che tutti abbiamo sotto mano. Non ho la presunzione di vedere più degli altri, ho solo più tempo per farlo e la passione di raccontarlo. Farlo non è facile: la semplicità e la facilità sono due cose molto diverse».

La capacità di stupirsi è in effetti un tratto che mi pare sia spesso presente nei personaggi del suoi libri.
«Mi piacciono le persone curiose in tutti i sensi: ovvero particolari magari strambe, ma anche curiose del mondo. Le persone non curiose del mondo mi spaventano perché nella migliore delle ipotesi sono persone di una noia sconfortante e le persone noiose sono le uniche che non accetto di frequentare. Mi piacciono invece quelle che non temono di fare qualcosa che non è normale. Io, poi, sono curioso di tutto: quando sento che qualcuno si annoia vorrei capire come fa, perché ci si deve impegnare per annoiarsi in un mondo come il nostro, che il libro di fantascienza più grande che ci sia».

BaNNER
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