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«Ho iniziato a fare l’attore per vincere certe paure»

Emanuele Salce, figlio di Luciano, è cresciuto accanto a Vittorio Gassman: due grandi artisti

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La voce è identica a quella del suo padre putativo e non è una voce qualunque. Ma con Vittorio Gassman, il mattatore, il piccolo Emanuele ci ha passato l’infanzia e l’adolescenza. Con lui, che sposò sua mamma Diletta D’Andrea da poco separatasi dal padre naturale (Luciano Salce), si è trovato a spartire lo spazio e il tempo, gli affetti e i difetti, le gioie e i dolori. Eppure Emanuele, a dispetto di tanti epigoni sopravvissuti a fatica, non “gasmaneggia” affatto. È proprio così, naturale e spontaneo, con quella voce rotonda dal timbro educato e possente che ascoltarlo al telefono fa ancora più effetto. D’altra parte l’“imprinting” è “imprinting” e come si fa a non essere segnati da un monumento che prima di pranzo si accerta che ti sia lavato be­ne le mani rivolgendosi a te come se ti recitasse un verso di Shakespeare. Lo racconta be­nissimo in uno spettacolo che è ormai repertorio in cui snocciola irresistibili siparietti di vita o, meglio, di teatro imprestato alla vita.

Mi racconta di “Mumble Mumble”, a cominciare dal titolo?

«Era un nomignolo che mi fu affibbiato da piccolo, perché parlottavo a testa bassa fra me e me, risultando per lo più in­comprensibile. Era la mia forma di ribellione al “fine dicitore”».

Passiamo al sottotitolo: “Con­fessioni di un orfano d’ar­te”. La vita di un ragazzino diviso tra due padri, Gassman e il suo padre naturale, il regista Luciano Salce.
«Mah, più che tra due padri ho voluto raccontare la sopravvivenza tra due giganti. Diciamo che avevano altri talenti. Ma è stato interessante riscoprirli in età adulta. Con mio padre, avendolo perduto troppo presto, ho avuto modo di “frequentarlo” solo nel corso di alcuni lavori a lui dedicati. Mentre con Vittorio ci siamo ritrovati quando mi chiese di fargli da assistente in uno spettacolo del ’93, “Significar per verba”. Lavorare con lui era il miglior modo per rapportarcisi e recuperare terreno sul piano affettivo.

E c’è riuscito?

«Sì. Ero diventato il suo confidente. L’ho seguito in altri lavori e sono stati anni bellissimi, all’insegna di una grande sincerità».

A proposito di sincerità, nello spettacolo è molto diretto. Penso alla scena in cui la veglia di Vittorio si trasforma in un “funeral party” in cui il bel mondo “contrito” si gode la semifinale Italia Olanda.
«Si tratta solo di umane propensioni! E poi chi ha detto che è dissacratorio godersi la partita tutti insieme se poi si afferma che si sia vinto grazie all’intervento del defunto? Io non sono per la forma difesa fino all’ostentazione e credo che Vittorio sarebbe stato d’accordo. D’altra parte nei suoi film ha inscenato anche questa leggerezza».

È per difendere la “finta verità” che ha incominciato a fa­re l’attore?
«No, ho incominciato a quarant’anni per necessità interiore. Volevo accertare se negli anni precedenti mi fossi negato qualcosa. Volevo capire se mi piaceva».

E dunque ha capito che fare l’attore le piace.
«Onestamente no. Però mi è servito per vincere certe paure, per sbloccare dei complessi. Oggi proseguo per strade non battute, in cerca di risposte, anche spiacevoli a volte, ma vere. E per me necessarie».

“Mumble Mumble” continua a riscuotere un grande successo...
«È uno spettacolo che ha avuto sempre un grande consenso, pur non essendo lo spettacolo più visto di tutti i tempi, è sicuramente quello più rivisto. Ci sono persone che son tornate sei o sette volte… Anche perché cresce, evolve, matura, invecchia. Come me».

Quale sarà la prossima strada sterrata su cui avremo il piacere di seguirla?
«Sto lavorando a un secondo spettacolo che debutterà a fine febbraio, sempre a sfondo autobiografico e necessariamente autoironico. Con me in scena ci sarà ancora Paolo Giommarelli».

Lei ha lavorato con Ales­san­dro Gassman. La ricordo in “La parola ai giurati”, il testo in cui un ragazzo ispano americano, accusato di parricidio, verrà as­solto. Com’è la vita da scritturato?

«Dipende dal progetto a cui lavori. Quella fu la prima e uni­ca volta in cui ho lavorato con Alessandro. Era venuto a ve­dermi recitare e poi mi propose di fare un ruolo in quello spettacolo con dodici attori che, va detto, ebbe grande successo».

Il teatro non se la passa affatto bene e la pandemia non gli ha certo dato una mano. Cosa pensa delle proposte su piattaforma in streaming arrivate dalle istituzioni dedicate?
«Penso che ora che la pandemia è passata si deve cambiare linea. In fretta. Il cinema si può anche fruire in tv soprattutto adesso che ci sono i maxischermi in casa, ma il teatro necessita dell’interazione tra esseri umani. Il teatro è in diretta, è sudore, respiro, risata, applauso, colpo di tosse. Il teatro vive, nasce e muore ogni volta e ogni singola volta è diversa dall’altra».

La recitazione nel cinema e nella tv: c’è differenza?

«Dipende sempre dal tempo (e quindi dal danaro). Fon­damentalmente sono la stessa cosa, ma per prodotti come sitcom, telenovelas e alcune fiction, nelle quali hai un budget limitato e di conseguenza anche poco tempo, bisogna correre e spesso girare anche dieci scene in un giorno. Quando in un film con grande budget, ad esempio, se ne gira mezza in un giorno. Questo incide ovviamente su tutti gli aspetti, inclusa la qualità degli interpreti e quindi quella della recitazione. La differenza è un po’ quella tra beni di consumo e beni di lusso, tra l’outlet e il negozio al dettaglio».

Quando uscirà questa intervista sapremo già in che mani è finita la capitale. Non le chiedo nomi, ma cosa si augura?
«Mah… ormai si va verso l’integrazione con i cinghiali. Spero che riceveranno anche loro una tessera elettorale e che andranno a votare coscienziosamente».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco