Federico Rampini, partiamo dal titolo del suo ultimo libro: “Fermare Pechino”. Suona l’allarme?
«Certo che suona l’allarme. L’Occidente intero si è distratto pericolosamente mentre la Cina sta cambiando in tanti modi, quasi tutti gravidi di pericoli. Cresce come superpotenza non solo economica e finanziaria, ma tecnologica e militare, fino a nutrire un vero progetto imperiale e di dominio su interi settori strategici per noi. Ha ormai un complesso di superiorità e perfino un’arroganza nei nostri confronti, convinta che l’Occidente sia in un declino terminale, irreversibile. Non solo non accetta lezioni sulla democrazia e i diritti, ma afferma in modo esplicito la superiorità del suo sistema politico».
La Cina si è infine adeguata al modello capitalistico?
«Questa è già una storia passata, il penultimo capitolo, importante ma in via di superamento. Come spiego nel libro, per trent’anni la Cina ha studiato, copiato, emulato il capitalismo americano. Con l’aiuto e la complicità dei poteri forti del medesimo capitalismo americano: da Apple a Goldman Sachs, dalla General Motors alla Boeing. I risultati sono stati eccellenti, nella capacità di replicare quel modello adattandolo. Però, a partire dallo schianto di Wall Street del 2008-2009, seguito dalla recessione in Occidente e dalla crisi dell’Eurozona, Pechino ha avuto una “epifania”. I dirigenti comunisti cinesi si sono convinti che il nostro capitalismo ha un male incurabile, e che il loro capitalismo di Stato, con una forte impronta dirigista, è molto più solido e stabile. Questa è la storia di oggi, il nuovo stadio che vede in un certo senso una sterzata a sinistra da parte di Xi Jinping».
Perché dobbiamo considerare i cinesi una minaccia?
«L’elenco è lungo, le minacce al plurale vengono descritte in vari capitoli del mio libro. Ne cito alcune. C’è il rischio di un’invasione di Taiwan, il principale fornitore di semiconduttori e microchip, senza i quali non abbiamo né telefonini né computer né automobili. C’è la minaccia ambientale legata all’aumento delle emissioni carboniche: quelle della Cina sono già il doppio di quelle americane. C’è l’accaparramento di materie prime in Asia, Africa e Sudamerica, con cui la Cina punta al monopolio di una tecnologia del futuro come l’auto elettrica. C’è la ricattabilità politica che segue alla dipendenza economica: ne hanno già fatto le spese Canada, Australia, Svezia, Norvegia, Repubblica Ceca».
Anni fa i cinesi non si preoccupavano di inquinare la loro aria e quella fuori dai confini, poi hanno cominciato a ridurre le emissioni con grande successo. Solo operazioni di facciata?
«Come quantità assoluta non scendono affatto le loro emissioni. Per adesso quella che si limita a calare è soltanto la velocità di crescita, ma il volume è in continuo aumento. Xi ha promesso che arresterà questo boom di emissioni carboniche, fermandolo, stabilizzandolo a un tetto per poi ridurre il totale, ma solo a partire dal 2030. È vero che nel frattempo sta investendo molto nelle energie rinnovabili, che per la Cina includono a pieno titolo il nucleare, e in certi casi si avvicina a una posizione monopolistica: con “dumping” e concorrenza sleale ha fatto fallire molte aziende occidentali di pannelli solari, per cui oggi gran parte del solare anche in America è “made in China”».
Ha spiegato come stiano cambiando i rapporti tra Usa e Cina. Cosa dobbiamo aspettarci?
«Nel libro descrivo cambiamenti molteplici. Da una parte, l’analisi degli americani sulla Cina si è fatta sempre più preoccupata, e ormai abbiamo una evidente continuità fra Donald Trump e Joe Biden. D’altra parte, dopo trent’anni in cui la Cina copiava l’America, ora a volte accade il contrario. Biden ha visto quanti progressi tecnologici sono stati realizzati da Pechino col ricorso ad un’azione energica dello Stato, e vuole fare lo stesso».
La questione della difesa di Taiwan e l’appoggio degli americani all’Australia aprono nuovi scenari di guerra fredda?
«Perfino calda… Speriamo di no, ma basta leggere i discorsi di Xi Jinping per vedere che l’annessione di Taiwan è un suo obiettivo proclamato. Il “vecchio continente” ha incassato malissimo due decisioni del Presidente americano: l’evacuazione precipitosa dall’Afghanistan; poi la nascita di nuove geometrie strategiche e nuovi “club” nell’Indo-Pacifico. La ritirata da Kabul non sarebbe stata sufficientemente concordata con i partner della Nato, poi c’è stato lo “strappo” dei sottomarini, quando Washington ha annunciato la fornitura di sommergibili a propulsione nucleare all’Australia, battezzando un nuovo dispositivo difensivo, “Aukus”, che unisce le marine militari americana, inglese e australiana. Le proteste più vibrate sono venute dalla Francia: Parigi si è vista soffiare il mercato australiano nel quale sperava di vendere suoi sottomarini per 56 miliardi. Il premier australiano Scott Morrison ha risposto per le rime: i “sub” francesi non sono competitivi, la propulsione nucleare offre vantaggi strategici. Sullo sfondo c’è l’ombra della Cina e la minaccia di una sua invasione di Taiwan. Emmanuel Macron, oltre al business perduto, si sente escluso da un teatro sempre più strategico, mentre proclama che anche la Francia è una “potenza dell’Indo-Pacifico” (grazie ai territori d’oltremare). L’incidente ha riprodotto le incomprensioni fra le due sponde dell’Atlantico che si erano verificate sull’Afghanistan. Gli europei sembrano scoprire con ritardo che sono cambiati in modo drastico il posizionamento strategico dell’America, le sue priorità, gli scenari su cui vuole concentrare le risorse. Ancora a metà giugno gli europei applaudivano Biden perché in occasione della sua tournée europea diceva “America is Back”, l’“America è tornata”. Non si chiedevano: tornata dove? L’asse preferenziale con la “vecchia Europa” è ormai un anacronismo perché il mondo è cambiato. Il “pivot to Asia”, la rotazione strategica verso l’Asia era stata annunciata già da Barack Obama. La “dottrina Biden” è il frutto di una nuova generazione di strateghi, guidati da Jake Sullivan, a capo del National Security Council. Non è una riedizione dell’“America First” di Donald Trump ma ne ha estratto alcune lezioni. L’America si era distratta mentre la Cina accelerava la sua rincorsa in settori tecnologici cruciali».
I rapporti di forza in campo internazionale si sono visti anche nella gestione dei vaccini?
«Qui è l’America a essere passata in vantaggio, almeno finora. La Cina ha tentato di sfoderare una diplomazia dei vaccini a scopo di penetrazione geopolitica nei paesi emergenti, però i prodotti Sinopharm e Sinovac sono poco efficaci. L’Europa ha dovuto affidarsi alle multinazionali americane per la produzione su larga scala dei vaccini migliori, Pfizer e Moderna. Per adesso la Cina è costretta a ricorrere a lockdown localizzati ogni volta che scoppia un nuovo focolaio, perché non ha fiducia nei suoi stessi vaccini».