L’appuntamento con il celebre cardiochirurgo italiano è per domenica 17 in prima serata su Rai 1. Lo vedremo muoversi per le corsie dell’ospedale Molinette di Torino insieme alla sua equipe con cui sogna di realizzare il primo trapianto di cuore nella storia della medicina. Parliamo di Achille Dogliotti, pioniere della cardiochirurgia in Italia e fondatore del primo centro dedicato all’università di Torino.
Alla sua figura si ispira “Cuori”, la serie televisiva in otto puntate diretta da Riccardo Donna che vede nel ruolo Daniele Pecci, attore di prosa e cinema, molto noto al pubblico televisivo per serie come “Orgoglio” e “Il bello delle donne”.
Secondo lei a cosa è dovuto questo crescente proliferare di medici e ospedali in tv?
«L’ospedale è il luogo in cui si gioca la vita e la morte, quindi perfetto per la drammatizzazione».
Veniamo a “Cuori”. Dietro il suo personaggio, il chirurgo Cesare Corvara, c’è un medico molto conosciuto soprattutto a Torino. Come si è avvicinato alla figura di Dogliotti?
«Il mio personaggio non solo ha un nome diverso, ma la sua vita professionale e privata è completamente inventata, così come la serie tutta, benché sia costruita su uno sfondo di storia e cronaca reale».
Dove avete girato?
«A Torino e in particolare alla Lumiq Studios dov’è stata realizzata una ricostruzione scenografica fedele di due piani delle Molinette con i lunghi corridoi, le sale operatorie. E poi in altri luoghi della città come la Cavallerizza Reale i cui esterni si prestavano molto bene a ricordare l’ospedale visto da fuori».
Torino è una città che ai non torinesi suscita impressioni contrastanti. Lei come l’ha vissuta?
«Purtroppo nessuno di noi ha potuto vivere la città al di fuori del set. Abbiamo girato in tempo di Covid con un grande senso di responsabilità collettiva. Quindi vita monacale, tra casa e set. Evitavamo anche di frequentarci tra di noi».
Già, il Covid. Ora i teatri e i cinema riaprono a pieno regime, tornando alla capienza del 100%. È più contento o più preoccupato?
«Sono contento soprattutto se penso ai teatri privati per cui non sarebbe possibile continuare a capienza ridotta. Sarebbe la fine».
Quando la vedremo a teatro?
«A gennaio riprenderò “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee William, interrotto dopo sessanta repliche due anni fa. La regia è di Pier Luigi Pizzi e sarò sempre in scena con Mariangela D’Abbraccio».
Io ho un bel ricordo del suo “Edipo Re” con la regia di Daniele Salvo al Teatro Greco di Siracusa.
«Ho un ricordo quasi trasognato. C’erano attori come Ugo Pagliai, Laura Marinoni, settantaquattro artisti in scena. Edipo è la più bella tragedia mai scritta e Daniele Salvo crea spettacoli molto ricchi, con importanti coreografie e un meticoloso lavoro sul coro, le comparse, le posizioni e l’occupazione degli spazi».
Salvo, da buon allievo di Luca Ronconi, fa anche un attento lavoro sulla lettura del testo e sulla recitazione in senso stretto. Vi siete capiti al volo?
«Io non ho mai lavorato con Ronconi, ma le sue indicazioni e il mio sforzo di tradurre la scrittura poetica di Sofocle, lontana dal parlato, in qualcosa di umano, vicino a noi, andavano nella stessa direzione. Questa opera sopravvissuta migliaia di anni si impone con prepotenza sul lavoro di qualsiasi attore. Ha in sé una forza che schiaccia idee, progetti e qualunque intenzione di interpretarla diversamente. Non credo sia giusto cercare l’originalità a qualsiasi costo: la novità è contenuta nell’opera stessa e noi tutti dovremmo pensare di fare teatro come piccole formiche che trasportano un grande tronco, sopravvissuto ai secoli».
È con la stessa convinzione che ha diretto Amleto, di cui è stato anche interprete? Ricordo un’operazione di adattamento abbastanza radicale.
«Più che adattamento, ho fatto dei tagli attenendomi a quelli accettati dal 90% degli allestimenti teatrali. Amleto è una tragedia lunghissima, per certi versi eterogenea, e durerebbe quattro ore e mezza senza pause. Io ho cercato di renderla fluida e scorrevole mantenendo gli snodi fondamentali ma unendo due atti e mezzo in un unico piano sequenza che va dal momento in cui Amleto litiga con la madre Gertrude alla morte di Ofelia».
Un lavoro in sottrazione, verso una linearità che si riscontrava anche nei costumi. Amleto che recita l’essere o non essere in maglione ha avuto un illustre predecessore in Giorgio Albertazzi.
«In verità io mi sono ispirato all’allestimento della Haymarket Theatre di Leicester, diretto da Jurij Ljubimov (il fondatore del Teatro Taganka di Mosca, nda) che vidi negli anni ottanta al Teatro Argentina e che mi aveva folgorato. Gli attori indossavano tutti un maglione di lana nera e dei Levi’s che da lontano non riuscivi a distinguere. Quella volta capii l’essenza e il senso dell’assenza-presenza dei costumi. Nel mio caso volevo restituire un Amleto che desse l’idea di un intellettuale mitteleuropeo dei primi del ’900, piegato sui libri, con gli occhialetti e la barba incolta, molto lontano dall’aspetto atletico e roboante di un Richard Burton, per esempio. Una sorta di principe decadente, l’ultimo dei Romanov».
Per questo anche la recitazione di tutti era colloquiale e diretta?
«Sì, ho voluto che tutto quello che veniva detto fosse terreno, non caricato o travolto dal verso. E ho cercato di contestualizzare un momento topico come l’essere non essere, che non può essere isolato dalla situazione precedente: Amleto sa che c’è qualcuno che lo spia e si deve capire».
Una decina d’anni fa interpretò in teatro un capolavoro del cinema come “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman. Ci fu una reazione da parte dei cinefili?
«Cinefili o meno quello è stato il più grande testo che io abbia fatto in teatro dal punto di vista dell’impatto sul pubblico. Un testo messo su carta in due anni ma vissuto in prima persona e quindi portatore di una verità prepotente, straziate e a volte anche comica».
Comica?
«Sì perché a volte la verità è talmente imbarazzante da essere comica. E la reazione del pubblico è stata anche il riso isterico».
C’è un personaggio o un autore che vorrebbe interpretare?
«Cechov e Zio Vanja in particolare. Ma forse sono ancora giovane. Io credo molto nel lavoro che dà senso a tutto come succede nell’ultima scena in cui Sonja e Vanja riprendono il lavoro come se nulla fosse, trovando in esso un senso e un valore».
Qual è il suo principale difetto?
«Eh, la pigrizia. Ma mi rendo conto che tutte le cose buone ottenute finora sono il frutto di uno sforzo strenuo, malgrado la pigrizia».
E il pregio?
(Lungo silenzio). «Mah, sono un bel ragazzo».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco