Home Articoli Rivista Idea «“Jouer” è il mio modo di cercare la felicità»

«“Jouer” è il mio modo di cercare la felicità»

Alessandro Haber si racconta nelle pagine del libro autobiografico presentato nei giorni scorsi anche a Cuneo

0
113

Ci sono biografie che meritano davvero di essere scritte. Non tanto per rimettere a posto fasi diverse di un itinerario di vita, ma perché sono un precipitato di anima mescolata a umori. Tale è la biografia di Alessandro Haber, attore eccentrico e puro come possono essere puri gli spiriti più contaminati. “Volevo essere Marlon Brando”, pubblicata da Baldini+Castoldi, è un concentrato di umori che fluttuano e odorano in più di 400 pagine scritte di getto. O forse no, ma l’impressione è proprio quella di un flusso di coscienza ininterrotto che ogni tanto si cristallizza in immagini che restano. Nude, sincere, commuoventi. Succede anche nel migliore teatro. L’attore lancia un amo e se tu abbocchi il gioco è fatto. Resti lì, inchiodato alla sedia, e arrivi alla fine. In questo caso la fine è una raccolta di testimonianze a cuore aperto di amici e colleghi di cinema e teatro che concorrono a sigillare il puzzle di una vita, ognuno a suo modo, ognuno portatore di un pezzetto di verità.

C’è tanta sincerità, in queste pagine. C’è l’uomo e l’artista che si è messo a nudo. Cosa sarebbe Haber se non fosse attore?
«Io mi sento bene solo sul palcoscenico o sul set. L’idea di potere smettere mi strugge. Mi domandano spesso se mi emoziono ancora quando lavoro: molto di più, mi cambia l’umore. Alla prima in teatro me la faccio sotto come quando avevo vent’anni».

“Non sono mai stato da uno psicanalista”. La sua autobiografia incomincia con questa dichiarazione. È vero che recitare è un po’ come una seduta di analisi?
«Non c’è niente che mi faccia stare meglio di recitare. Anche se non mi piace la parola recitare. “Jouer”, alla francese, è molto più giusta. Giocare. Ecco, io quando non gioco, cerco la felicità e non la trovo».

Non è mai stato da uno psicanalista però ha interpretato Freud ne “Il visitatore” di Eric-Emmanuel Schmitt, un testo nel quale il padre della psicanalisi viene nientemeno che visitato da Dio. Un bel coraggio. Come si è avvicinato a questo monumento?
«Uno dei personaggi più faticosi che abbia interpretato. La regia era di Valerio Binasco ed ebbi l’occasione di tornare a lavorare con Alessio Boni, nella parte di Dio. Da una parte Freud, razionale, non credente, dall’altra Dio che arriva apposta per metterlo in crisi. Io mi accosto ai personaggi partendo sempre dal corpo, dalla fisicità. Solo dopo arrivano le battute. Fatico a memorizzare prima di sapere chi sono. In quel caso ripresi la camminata di un uomo di ottantadue anni, il tremore della mano, cambiai anche il timbro della voce, che divenne più rauca, perché Freud aveva un cancro alla gola».

Alla fine il testa a testa tra Dio e Freud sembra finire con un pareggio. Hanno ragione entrambi. Lei cosa si augura?

«Io mi auguro che un altrove ci sia. Un mistero che ci accomuna. Per questo credo che Papa Francesco abbia fatto bene ad abbracciare la chiesa di tutti, è un rivoluzionario, non mi ha deluso. Quando dice che Dio è come una mamma vorrei abbracciarlo».

Lascio al lettore scoprire le pagine in cui racconta che a volte entra in chiesa e prega e poi si sente come se avesse bevuto un gin tonic. Sono bellissime. Noi parliamo invece di quella volta in cui si denudò di fronte a Laura Betti e a tutto il pubblico del Teatro Carignano di Torino in Orgia di Pasolini.

«Non solo al Carignano. Uno spettacolo che portammo anche al Beaubourg di Parigi e mi diede enormi soddisfazioni. La regia era di Mario Missiroli, un regista a cui ero legato da grande affetto e amicizia. Il monologo finale in cui l’Uomo si traveste e si trucca da donna per rivendicare la sua diversità provando a ribellarsi alla sfera del potere, è di una bellezza straziante, per me un ricordo nitido, indelebile».

È chiamato quasi sempre a rivestire ruoli estremi. Uno di questi è “Il padre” di Florian Zeller, un ottantenne malato di Alzheimer tra l’altro da poco portato al cinema da Anthony Hopkins. Come si fa a entrare in un mondo così delicato e misterioso?
«Ho pescato nella valigia dei ricordi. Ho ricordato la madre di un amico malata di Alzheimer, il suo sguardo assente, sfocato mi era rimasto dentro e sono partito da lì. Un ulteriore suggerimento mi è arrivato da un’amica che lavora nel campo e che mi ha spiegato che ogni tanto queste persone tornano in sé e si difendono aggredendo, ma un attimo dopo­ ritornano bambini. Piero Maccarinelli, il regista, è stato fondamentale nell’aiutarmi ad arginare le mie sfuriate e nel restituirmi equilibrio dopo i momenti di crisi».

A proposito di ritornare bambini, in “Scacco pazzo”, un testo di Vittorio Franceschi, assistiamo proprio alla regressione di un uomo a causa di un trauma.

«Stavo facendo “Tragedia popolare” con Vittorio e una sera mi è venuta in mente questa idea che gli ho lanciato. Due fratelli, un incidente, il gioco dei travestimenti. È stato un viaggio meraviglioso, la prima regia teatrale di Nanni Loy. Gianmarco Tognazzi venne in camerino e mi disse che a tratti gli ricordavo Ugo».

Già, Ugo Tognazzi, ovvero Gigi Baggini, l’attore fallito interpretato da Tognazzi in “Io la conoscevo bene”, che è anche “l’altra faccia della medaglia” di Marlon Brando nel titolo dell’autobiografia.

«La scena in cui balla la “claque” su un tavolino racchiude tutto il suo fallimento d’attore e la cattiveria di chi gli sta intorno, eppure lui è felice di ballare per gli altri, di farsi prendere per il culo. La sensazione di poter fare la sua fine non mi ha ancora abbandonato. Baggini è una figura che mi ha sempre accompagnato, come certi odori, come la cucina di mia madre, che mi porto dietro sin da bambino».

Allora veniamo alla cucina. È vero che è una buona forchetta? La scorsa settimana ha presentato il libro a Cuneo, le hanno fatto fare un tour gastronomico?
Come no. Adoro il tartufo: sulle tagliatelle, sull’uovo, ma lo metterei dappertutto. Conosco bene queste zone e la cucina piemontese. Cuneo, Alba, Asti. A Cuneo sono ritornato nello stesso ristorante che avevo frequentato proprio durante l’allestimento di “Scacco pazzo” e ho visto appese le mie foto. Ad Alba sono andato spesso invitato da Paola Farinetti e da Gianmaria Testa, un amico che ricordo con affetto».

Quando la rivedremo in scena?

«Riprenderemo “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller con la regia di Leo Muscato, interrotto per il Covid. Non sarò Biff, come nei provini che facevo da ragazzo, ma il padre, il commesso, Willy Loman, un personaggio che ho inseguito per anni».

Articolo a cura Alessandra Bernocco