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40 anni in quel pozzo

Nei giorni scorsi ci ha lasciato Angelo licheri, l’uomo che nel 1981 a Vermicino si fece calare a piedi all’insù per cercare di salvare Alfredino Rampi. Riemerse dopo 45 minuti di buio e male, con un senso di sconfitta che mai passò

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Un pozzo artesiano, un bambino intrappolato, l’Italia con il fiato sospeso incollata alla tv. Luci blu roteanti di mezzi di soccorso, cellule fotoelettriche, camici bianchi e divise, il dolore dignitoso di una mamma, l’angoscia di un popolo, la speranza che scivola via con le ore. Alfredino è laggiù da oltre quarantott’ore, la sua voce diventa sempre più flebile, la preoccupazione che affiora sul volto dei soccorritori svela il timore di perdere la sfida con il tempo. Hanno provato a tirarlo fuori. Tutto inutile. Hanno cercato di scavare un cunicolo parallelo per raggiungerlo, ma le vibrazioni l’hanno fatto precipitare ancora più sotto. Tensione e disperazione si insinuano tra chi lavora attorno al pozzo e chi, più per partecipazione sincera che per famelica curiosità, osserva e prega. E poi in tutte le case. In tutte le scuole. Negli uffici, nelle fabbriche, nei negozi.
Angelo Licheri è un fattorino, è piccolo di statura e secco come un chiodo, guarda quel pozzo maledetto e sente dei tentativi a vuoto, pensa che lui può farcela e sale in macchina, destinazione Vermicino. Non è semplice convincere i soccorritori, ma le scelte sono ridotte e lui determinato, l’ascoltano e gli affidano la speranza di tutti. Il popolo applaude quando lo calano a testa in giù, in mutande e canottiera per non creare attrito, e piange quando lo tirano fuori stremato, maschera di fango, sangue e dolore. Solo. Alfredino è ancora laggiù. E si intuisce che nessuno più potrà salvarlo. In mezzo 45 minuti di buio e di male, di parole tenere e lamenti, di graffi sulla pelle e squarci nell’anima, di generosità e coraggio, infine di sconfitta.
Angelo li racconterà mille volte, quei minuti, nel resto di una vita ormai segnata: le promesse, le rassicurazioni, il visetto ripulito dal fango, il corpicino incastrato, le imbracature che non reggono, la canottierina che si rompe, perfino un polso che si spezza mentre cerca, ormai distrutto, di afferrarlo e portarlo con sé verso la luce. Quando tutto finisce, quando l’ultima fiammella si spegne, quando capisce che ha perso e piange e il dolore morde, gli manda un bacio e sussurra “Ciao piccolino”, poi si lascia issare mentre i sensi lo abbandonano e le ferite bruciano. Non lo dimenticherà mai, non uscirà mai da quel tunnel. L’Angelo venuto dal nulla, l’eroe che mai eroe s’è sentito, il campione di generosità e di altruismo, sapeva bene di aver fatto il possibile e di più, di aver rischiato la vita per salvare Alfredino, ma soffriva e non si perdonava perché non era bastato.
Angelo è morto pochi giorni fa con quel pensiero, quarant’anni dopo quella tragedia che chi ha i capelli grigi non scorda e i giovani hanno appena rivissuto attraverso un film. È morto dopo anni di malattia, nella struttura che lo ospitava da tempo, dimenticato dalle istituzioni, lui che si era offerto per custodire la speranza di un Paese senza temere la sua incolumità, per la sua esistenza. Ci piace pensarlo sereno, come in una vignetta tenera che gli hanno dedicato: abbraccia Alfredino su una nuvola e sorride e dice: «L’ho preso».