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«Il premio ha regalato un sorriso a mio papà»

Federica Boffa “miglior giovane vignaiola” d’Italia per il Corriere della Sera: «Orgoglio e responsabilità»

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Il Corriere della Sera le ha assegnato il titolo di miglior “giovane vi­gnaiola” nella guida “I migliori 100 vini e vignaioli d’Italia 2022”, in edicola assieme al quotidiano. Lei è Federica Boffa, 23enne titolare della storica cantina Pio Cesare che in questo 2021 festeggia il notevole traguardo dei 140 anni di attività dell’azienda ma che al tempo stesso, ad aprile, ha salutato Pio Boffa, l’uomo che ha saputo aumentare e consolidare il prestigio di un’etichetta davvero speciale. Basti dire che si tratta di una realtà conosciuta in tutto il mondo e che la sua sede di Alba, l’unica ancora operativa in pieno centro, è fondata sulle antiche mura cittadine di origine romana. Lei, la giovanissima erede, laureata in Economia Aziendale e formata per accompagnare nel futuro l’azienda di famiglia, segue una strada già tracciata ma guarda decisamente avanti. Senza tradire incertezze, guidando con sicurezza.

Federica, cosa le avrebbe detto suo padre commentando un premio così significativo per lei come quello assegnato dal Corriere?

«Papà in realtà lo aveva saputo, la comunicazione del premio ci era arrivata l’anno scorso».

Immaginiamo che ne fosse felice
.
«Sì, molto. Anche perché ci trovavamo in una situazione particolarmente difficile, nel pieno del lockdown e l’azienda stava soffrendo le conseguenze specialmente sul canale Horeca, ovvero quello della ristorazione, al quale da sempre riserviamo grande attenzione. Era tutto fermo e papà, non potendo viaggiare, si sentiva come un leone in gabbia. Quella notizia, per fortuna, lo aveva finalmente rallegrato, ne era orgoglioso».

Poi è purtroppo arrivato il Covid?

«Mi sembra che fossimo a dicembre, a fine gennaio di quest’anno abbiamo saputo del contagio».

Possiamo dire che questo premio assume oggi un valore speciale?
«È così. Il fatto di essere stata scelta come “giovane vignaiola” rappresenta un motivo di orgoglio. Al tempo stesso, portare avanti al meglio il lavoro di mio padre è per me una responsabilità, anche se lui anno dopo anno mi aveva preparato a tutto questo».

L’azienda ha già ripreso i ritmi di produzione abituali?
«Ci stiamo risollevando, soprattutto con l’export, anche se non tutti i paesi a cui ci rivolgiamo stanno uscendo dall’emergenza sanitaria. Questo ci trasmette ancora incertezza. Noi abbiamo il mercato italiano come riferimento e poi oltre cinquanta nazioni nel mondo. I canali online sono stati preziosi, ma ci sentiremo tranquilli solo quando saremo tornati a visitare personalmente i nostri clienti, come nella filosofia che ci contraddistingue da sempre».

Fin dove arrivano le 450 mila bottiglie prodotte ogni anno da Pio Cesare?

«Principalmente in Usa, poi Canada, Giappone, Cina, Corea, Singapore, ma anche Inghilterra e Germania»

Certo che nel 1881 pensare ad aprire verso l’estero, partendo dalle Langhe, non fu cosa da poco.

«Diciamo che da sempre siamo pionieri. Il mio bisnonno Cesare Pio nei primi anni del ’900 ottenne uno dei primi passaporti italiani, il numero 50. Mio padre ha poi sviluppato la rete estera. Dico sempre che loro hanno cominciato viaggiando sui cavalli, noi continuiamo in aereo».

Tra l’altro furono i primi a promuovere Barolo e Barbaresco quando erano ancora vini sconosciuti fuori dal Piemonte?

«All’epoca si beveva soprattutto Barbera. Per far conoscere gli altri vini, mio padre a ogni ordine aggiungeva in omaggio bottiglie di Bar­baresco, Barolo e Dolcetto. Questo per dire come sono cambiati i tempi, anzi capovolti….».

E all’estero come venivano accolti i vini delle Langhe?

«All’inizio con grande scetticismo. Negli Stati Uniti conoscevano Cabernet, Merlot e molti rossi che arrivavano da Bordeaux. Il colore di quei vini era diversissimo dai nostri e spesso a mio padre chiedevano quali problemi avessero Barolo o Barbaresco, con quel rosso che sembrava così “scarico” rispetto ad altre uve. Non deve essere stato facile scardinare certe convinzioni. Ma con dedizione, mio papà è riuscito a ottenere grandi risultati».

E a proposito del vostro rapporto con il territorio, con le Langhe?
«Prima di tutto c’è un legame fortissimo con Alba perché siamo l’unica Cantina operativa nel centro storico e non intendiamo cambiare sede. Qui si custodisce la tradizione del nostro marchio, ne siamo orgogliosi e sentiamo il peso della responsabilità: l’etichetta riporta e diffonde nel mondo lo stemma di Alba. L’unione con le Langhe poi, è testimoniata da circa 75 ettari di filari in diversi comuni tra Barolo e Barbaresco, secondo la relativa filosofia per cui non si tratta di cru ma del risultato di un’unione di vigneti».

Ci parli dell’operazione Timorasso.
«Mio padre aveva acquistato due ettari a Vho, vicino a Tortona. Era affascinato da questo bianco che regge l’invecchiamento e che, come molti altri barolisti, ritemeva che avesse similitudini con i nostri vini. Abbiamo deciso di portare avanti la sfida, l’idea è di arrivare a un Timorasso affinato. Ma bisognerà aspettare, alla vigna serviranno tre anni per entrare in produzione, in bottiglia lo avremo probabilmente non prima di cinque o sei anni».

Com’è il rapporto con suo cugino, Cesare Benvenuto?

«Lui è figlio della sorella di papà, siamo entrambi della quinta generazione anche se ha qualche anno in più. È molto competitivo, estroverso e gioviale, molto diverso caratterialmente da me. Lui è decisamente un commerciale, io sono più da scrivania. Così le nostre peculiarità si compensano bene».

Messo alle spalle il Covid, cosa si aspetta dal futuro prossimo?

«Abbiamo terminato la vendemmia pochi giorni fa. Speriamo bene, il Nebbiolo promette bene, ma dobbiamo attendere due mesi prima di poter capire che stagione sarà la prossima. In ogni caso non vedo l’ora di potermi rimettere in viaggio per andare a trovare di persona tutti i nostri clienti e rassicurarli. Questa è la cosa a cui tengo di più in questo momento».