Home Articoli Rivista Idea Il diplomatico che riuscì a portare l’Onu a Torino

Il diplomatico che riuscì a portare l’Onu a Torino

Il poliglotta Gianfranco Gribaudo è anche l’autore del celebre “Ël Gribàud-dissionari piemontèis”

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Nel 1888 Costan­tino Nigra, diplomatico canavesano che girò l’Eu­ro­pa per conto di Cavour e della corona, diede alle stampe “I canti popolari del Piemonte”, raccolta di arie nostrane comparate con lezioni di altre regioni e altri paesi. Circa un secolo dopo, un diplomatico torinese che girò l’Europa (e non solo) per conto dell’Onu e altre organizzazioni sorelle, diede alle stampe il primo volume de “Ël neuv Gribaud-Dissionari Pie­montèis”. Questo è il parallelo che sovente mi piace fare nel presentare Gianfranco Gri­baudo anche se, immancabilmente, l’interessato mi lancia uno sguardo del tipo “Esa­ge­ro­ma pa…”. Non esageriamo… E incominciamo dall’inizio.

Professor Gribaudo ci racconti della sua infanzia.

«Nacqui a Torino il 1º marzo 1934 da genitori “che avevano studiato”: Giovanni, commerciante di tessuti e mamma Teresa Sorniotti. Per usare un termine moderno, la nostra famiglia era molto glocal: c’era un sano attaccamento alla propria terra, c’era il piacere di ricordare le cose “di una volta” e comparare le diversità con gli altri. In casa si parlava piemontese, ma papà conosceva il francese e lo usava per lavoro all’estero, mentre mamma ave­va imparato un po’ d’inglese».

L’amicizia oramai ventennale mi permette di passare al tu. Gianfranco, se non sbaglio quelli erano gli anni della Seconda Guerra Mondiale…

«Poco prima dell’inizio del conflitto ci trasferimmo a Pino To­rinese: scelta più che mai az­zec­cata, nel periodo del bombardamento su Torino accogliemmo i parenti sfollati dalla città. Quan­do arrivavano gli in­cursori scendevamo tutti in cantina a recitare il rosario. L’unica che non poteva scendere era la non­na, inferma nel letto, che al­la richiesta di spiegazioni sulle vi­bra­zio­ni causate dalle bombe, si sentiva dire: “A l’è ‘l can ch’as grata tacà al let” (“è il cane che si sta, strofinando contro il letto”)».

E, oltre alla tranquillità, la fine della guerra cosa ti portò?

«Un cugino di ritorno dalla prigionia mi portò una grammatica in inglese, iniziai a crearmi le basi e arrivato a scuola ero avanti anni luce rispetto agli altri. Mi appassionai di libri in inglese e a 16 anni feci un corso di carriera diplomatica».

I primi passi verso il lavoro di una vita…

«Nei primi giorni di università la professoressa di inglese ci fece leggere un pezzo a testa per vedere a che punto eravamo. Quando vide che avevo già una base mi chiese di farle da assistente “volontario” e iniziò a girare la leggenda metropolitana che mia madre era inglese. Nel ’52 mi iscrissi a Scienze Politiche, un corso nuovo legato alla Facoltà di Giurispru­den­za. A quel corso eravamo iscritti in dieci e tra i professori c’era Norberto Bobbio, che insegnava Filosofia del Diritto e Dot­trina dello Stato. A dicembre del ’53 Bobbio ci invitò al­l’inau­gu­razione della Sioi (Società Italiana per l’Or­ga­nizzazione Internazionale) do­ve era presente il segretario ge­nerale, Roberto Ago. La lezione verteva sull’apertura ai paesi sottosviluppati e le prospettive erano un misto di carriera e di volontario: mi iscrissi».

Poi il salto nel mondo del lavoro…
«Prima diciotto mesi a servizio della Patria, dopo di che mi buttai tra le braccia della Sioi e fui destinato a Roma. Lì conobbi persone di alta caratura, Um­berto Morra di Lavriano, Fer­ruc­cio Parri e uno dei miei più grandi maestri, il direttore Fran­co Alberto Casadio. Il fine settimana tornavo a casa per far visita agli anziani genitori e per dedicarmi all’orto. Ogni tanto sfruttavo i week-end per visitare l’I­talia “minore”, gli albanesi di Calabria o i franco-provenzali pugliesi».

E quindi il ritorno a Torino…

«Per poco. Il 1961 fu l’anno dell’Expo a Torino, con Gianni Agnelli presidente del comitato dell’Eil (Esposizione internazionale del lavoro). Il Governo italiano invitò l’Onu a gestire il tema dello sviluppo economico e sociale e io fui quindi richiamato a gestire le relazioni esterne. Quasi otto milioni di visitatori, tra cui la regina Elisabetta, il mondo iniziò a conoscere Torino».

Finito l’Expo?
«Tornai a Roma sotto l’egida dell’Onu. Nel ’65 ricevetti una proposta allettante per Parigi, accettai. Dopo alcune settimane arrivò la notizia tanto attesa: nascerà il Bit (Bureau In­ter­national du Travail) a Torino. Il mio sogno giovanile di portare le Nazione Unite a Torino si realizzò, così mi rimangiai le parole. Non la presero bene… Cin­que anni di lavoro per la mia città, poi nel ’70 colsi l’occasione di spostarmi a Ginevra, con sfacchinate di quattro ore al lunedì e al venerdì. Però, come si dice, galeotta fu Ginevra…»

Raccontaci un po’…
«Un giorno una giovane studentessa ellenica venne a chiedermi un informazione, io le risposi in greco e da lì… partì tutto. Sposai Anna nel ’71 e ci stabilimmo a Pino. Diventam­mo genitori di Giovanni An­drea nel ’72 e di Gilberto quattro anni più tardi».

Quindi continuasti a fare la spola tra Ginevra e Torino…
«Fino al ’73, quando tornai sotto la Mole a occuparmi delle borse di studio, sotto la direzione dell’ottimo Blamont il quale, purtroppo, fu incastrato da un losco personaggio che minò la credibilità (e i conti) del centro fino al 1986».

Facciamo un salto direttamente al 1986. Attila (come lo chiami tu) fu incastrato e serviva un nuovo direttore aggiunto per il Bit di Torino…

«Una situazione quasi imbarazzante per il centro e tra mille peripezie uscì il mio nome. Un cambio all’interno appoggiato dal direttore Tré­meaud e avallato dall’ambasciatore Falchi. Rilanciam­mo il Bit aprendoci verso est, erano gli anni del crollo del muro di Berlino…»

Come ti trovasti coi russi?
«Bene, nei pranzi di lavoro si respirava l’atmosfera dei tempi dello Zar, per contro il modo di vivere nelle campagne assomigliava ai nostri ’50 del dopoguerra. C’è un aneddoto: una delegazione russa, in trasferta presso il nostro centro, finì con l’essere ospite a casa mia a de­gustare la bagna cauda. Mi chiesero più volte se quella casa con giardino fosse mia. Benché fossero alti funzionari, non concepivano bene il concetto di proprietà privata».

Una carriera internazionale e una passione per la propria lingua madre. Come mai?
«Nel ’62 ero a una festa religiosa a Coumboscuro e vidi tutta quella gente attaccata alla propria lingua. Mi ricordai di un libro di un mio zio edito nel 1937 (4.300 proverbi piemontèis) e decisi di fare qualcosa per la mia lingua. Iniziò l’avventura de “Ël Gribàud-dissionari piemontèis”, due ore al mattino prima dell’ufficio e buona parte dei fine settimana, tutte schede in scatole delle scarpe, non era ancora il tempo dei computer… La prima edizione uscì nel ’72 con tanto di prefazione di Ca­millo Brero, l’ultima è del ’96».

Anno della pensione…
«Sì, da allora iniziai a godermi le mie passioni. Conferenze per conto del Centro Studi Pie­mon­tesi, i miei viaggi, i miei libri, il mio orto… e i miei nipoti».

Articolo a cura Valter Bergesio