Per scrivere i reportage contenuti nel suo ultimo libro, “Appetiti”, Luca Iaccarino, giornalista, scrittore e critico gastronomico torinese, ha vissuto una serie di avventure che raccontano, almeno in parte, la sua eclettica personalità. Ha fatto il cameriere nel più famoso ristorante del mondo, attraversato il Mediterraneo su una nave di cuochi e si è seduto a tavola con i bambini nelle mense scolastiche per scoprire cosa resta da raccontare su un tema ormai sulla bocca di tutti: il cibo. Intanto si prepara a tirare le somme su “Buonissima”, la prima edizione della kermesse tutta nuova dedicata al mondo enogastronomico della capitale torinese.
Ormai sentiamo narrare quello che mangiamo ovunque, come si fa a parlarne ancora senza essere noiosi?
«In realtà il tema trattato da anni in lungo e in largo sono i cuochi e i ristoranti. Da Masterchef in poi l’argomento gastronomia è stato decisamente pervasivo, ma questo non è un male: ha contribuito ad aumentare la cultura alimentare diffusa. Ma questa è soltanto una piccola parte della narrazione del cibo. Esistono argomenti che vengono trattati solo marginalmente, come la ristorazione scolastica, che ha certamente un impatto maggiore sulla nostra società rispetto ai pubblici esercizi. Lo stesso vale per la produzione agroalimentare, che potrebbe trasformarsi in una pratica diversa e davvero sostenibile. C’è ancora tanto da raccontare, perché il cibo contiene una fonte inesauribile di informazioni per dire quello che siamo. Dopo aver assistito a un boom nella narrazione della ristorazione, la vera sfida è fare giornalismo. Cioè cercare la verità sul cibo e poi raccontarla, nei dettagli, al pubblico».
In “Appetiti” si è occupato proprio di sostenibilità alimentare. Ma cosa dobbiamo mangiare per non sentirci sempre in colpa qualsiasi cosa compriamo?
«Si tratta di un tema delicato, ma io uso una scorciatoia. Tempo fa scrissi un servizio per l’inserto “D” di Repubblica che trattava delle innumerevoli manipolazioni legali a cui viene sottoposto il cibo prima di arrivare sulle nostre tavole. Si tratta di vere operazioni di “make up” per rendere quello che mangiamo esteticamente più appetibile e desiderabile. Alla fine del servizio ho pensato che non avrei più comprato niente. È un tema talmente attuale che è stata introdotta come materia di studio l’etica alimentare, la quale si occupa proprio di affrontare in modo consapevole il bisogno universale di cibo sano. Esistono numerose pratiche invisibili agli occhi, ma “sotto i denti di tutti”, come pesci reidratati, rombi agopunturati con il collagene perché pesino di più, insospettabili alimenti sbiancati. Senza nemmeno toccare il discorso del benessere degli animali negli allevamenti».
Qual è la sua scorciatoia quindi?
«Comprare a filiera cortissima. Conoscere i fornitori, andare a trovarli, vedere come vivono, come trattano i loro dipendenti. È un metodo empirico, ma è il migliore che conosco. Abbiamo la fortuna di abitare in Piemonte dove esistono allevamenti con un numero limitato di capi e in cui si dà valore alla salute e all’etica. Esistono mercati contadini e produttori di formaggio che ti accolgono volentieri per mostrarti come lavorano. Andiamo direttamente alla fonte ogni volta in cui è possibile farlo».
La settimana scorsa a Torino è andata in scena “Buonissima.” Che bilancio è possibile farne?
«Decisamente positivo, direi. L’idea è nata un paio di anni fa, chiacchierando con Stefano Cavalitto, avvocato gourmet e Matteo Baronetto, cuoco al ristorante Del Cambio. Volevamo creare qualcosa in grado di attirare i golosi e i gastronomi a Torino, colmando quel vuoto che aveva lasciato la trasformazione, necessaria per altro, da Salone del Gusto a Terra Madre. La nostra città paga da sempre lo scotto di avere accanto una città come Alba, luogo meraviglioso e che è stato capace di promuoversi da un secolo a questa parte, non solo in Italia ma anche in America. Siccome sposiamo tutti il motto di Lao Tzu “Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela”, abbiamo deciso di provarci».
E che cosa avete fatto?
«Abbiamo coinvolto per l’organizzazione “Idee al lavoro” di Torino e “Produzioni Fuorivia” di Paola Farinetti per dare vita a una manifestazione che vivesse dentro la città e ne mostrasse le sue numerose anime. Volevamo riportare italiani e stranieri per motivi gastronomici a Torino ma anche creare appuntamenti unici per chi in città ci vive tutto l’anno. Lo slogan era “Cibo arte cultura”: abbiamo usato l’arte gastronomica come ponte tra altre ricchezze sotto la Mole».