«Legalità? È sempre sinonimo di felicità posso dimostrarlo»

Il magistrato Gian Carlo Caselli sottolinea l’urgenza di continuare la lotta alle mafie

0
199

Entrato in Magi­stra­tura nel 1967 a To­rino, Gian Car­lo Caselli è in pensione dal 2013. Il suo impegno per la legalità oggi passa dalla collaborazione con Libera alle attività culturali e ai saggi: l’ul­­timo, presentato la scorsa set­timana a Cuneo nell’ambito del festival “scrittorincittà” (foto in alto, nella pagina di destra), si intitola “La giustizia conviene. Il valore delle regole raccontato ai ragazzi di ogni età” (Piemme Editore).

Legalità, una battaglia sempre in corso. A che punto siamo?
«Vive un momento di crisi profonda per quanto riguarda la credibilità e la fiducia an­che in chi la amministra. Ma, per quanto sia importante, de­nunciare e protestare non ba­sta: occorre soprattutto re­cuperare e ribadire il valore, il significato e la portata del­l’osservanza delle regole».

Si può davvero sconfiggere la mafia?
«Non si può non ricordare una delle frasi piu celebri di Giovanni Falcone: “La mafia è un fenomeno umano e co­me tale ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Si tratta però di volerla, questa fine, e di organizzarsi affinché arrivi. Il problema fondamentale è che i mafiosi com­piono un’infinità di attività gang­ste­ristiche, arric­chen­dosi con droga, rifiuti tossici, estorsioni, gioco d’az­zardo, appalti truccati… Ma non sono solo gangster, perché la mafia impesta il nostro Paese da circa due secoli e non c’è nessuna ban­da di gangster al mondo che superi i quaranta-cinquant’anni. Sono gangster, quindi, ma anche altro, ovvero le “relazioni esterne”, con pezzi della legalità (politica, economia, società civile). Se non si rescindono questi rapporti torbidi, queste complicità e coperture, che sono la spina dorsale del potere mafioso, ciò che ne spiega la persistenza oltre la normale durata di una banda di gangster, il traguardo non sarà raggiunto».

Cosa significa che la “giustizia conviene”?
«Senza regole non c’è partita: vincono sempre i soliti che partono da posizioni di supremazia, sopraffazione e privilegio nei confronti degli altri che invece di regole hanno bisogno per crescere in diritti e uguaglianza. Le regole assicurano la convivenza civile. Senza di esse c’è il caos, la giungla. Non si affermano gli interessi generali, ma quelli particolari: un singolo, una famiglia, un gruppo, una cordata, una lobby, un potentato o, al limite, una consorteria cri­minale. Parliamo di illegalità economica. L’evasione fi­scale, la corruzione e le mafie insieme ci costano almeno 330 miliardi di euro l’anno. È un’enormità, un colossale im­poverimento della comunità cui apparteniamo, una ra­pina di risorse con le quali potremmo avere molte cose in più che ci farebbero vivere me­glio: un campo sportivo per ra­gazzi; una casa di riposo per an­ziani; un centro d’ac­co­glien­za; trasporti, ospedali, scuole migliori; una maggior tutela del nostro territorio, del paesaggio e del patrimonio artistico, che è una ricchezza inestimabile. Nel li­bro, a un certo punto, dimostriamo che la legalità conviene al punto che si può considerarla senza retorica un sinonimo di felicità».

Com’è cambiata la lotta alla mafia da quando lei ha iniziato a combatterla?
«La mafia è un camaleonte che si evolve di continuo per adattarsi alle circostanze di tempo e di luogo che si presentano. In una recente intercettazione telefonica fra due ’ndranghetisti, si sente uno che dice all’altro: “A me non interessano più quelli che fanno ‘pum pum’ per le strade, ma quelli che fanno ‘pin pin’ sulle tastiere”. Non più quindi uomini con la lupara, ma colletti bianchi, soggetti perbene magari arruolati con i lautissimi compensi che i ma­fiosi possono elargire perché purtroppo sono ricchissimi. La lotta alla mafia è cambiata di conseguenza. Già l’insegnamento di Falcone era di seguire i soldi, ma oggi è un valore assoluto cercare di ricostruire i passaggi del riciclaggio, lo strumento di consolidamento e di ripulitura del­la ricchezza sporca dei ma­fiosi. Non è facile, perché, ad esempio, i paradisi fiscali in­ghiottono tutto e non restituiscono niente a livello di informazioni: è un problema che la cooperazione internazionale dovrebbe risolvere, ma a qualcuno non conviene e quindi non lo si fa».

C’è una figura in particolare a cui si ispira?
«In Magistratura, i miei maestri sono stati Bruno Caccia e Mario Carassi. Il primo era il pro­curatore esperto che, quan­do ero un giudice “ragazzino”, mi ha insegnato come fare il processo ai capi storici delle Brigate Rosse; Carassi, invece, era a capo dell’Ufficio Istruzione (io ero giudice istrut­tore, figura scomparsa nel 1989) e con l’esempio mi ha insegnato l’etica della re­sponsabilità. Al di fuori dalla professione, i punti di riferimento sono numerosi: oggi don Luigi Ciotti, e nel passato, rischiando, senza nominarli, di fare torto a tanti altri, don Lorenzo Milani e Danilo Dolci: personaggi controcorrente, coraggiosi, animati dal­la volontà del cambiamento nell’interesse generale».

Articolo a cura di Adriana Riccomagno