Marco Malvaldi pisano, classe 1974, laureato in chimica, ha esordito nella narrativa nel 2007 con “La briscola in cinque”, il primo di una serie di fortunati gialli ambientati sulla costa toscana (da cui Sky ha tratta la fortunata serie tv “I delitti del BarLume”) che hanno come protagonisti quattro arzilli vecchietti e un barista, anzi un “barrista”, pronunciato nel dialetto del luogo. Una scelta coraggiosa visto che gli anziani sono sì abili solutori di misteri, ma sono anche vecchi per davvero, con tutti gli acciacchi fisici e le difficoltà motorie che l’età porta con sé. I quattro amici al bar continuano ad analizzare il mondo dal tavolo dove giocano interminabili partite a carte anche nell’ultimo romanzo “Bolle di sapone”, presentato alla manifestazione “scrittorincittà”, a Cuneo, poche settimane fa. È il mondo, però, a non essere più lo stesso. La pandemia ha cambiato tutto, e così il clima delle chiacchiere davanti al bancone ne risente. Lo smartworking, le mascherine e il distanziamento non hanno tuttavia scalfito la loro tagliente toscanissima ironia.
Marco, lei è stato recentemente ospite di “scrittorincittà” a Cuneo, una città capace a volte di sorridere della sua stessa fama di luogo tranquillo. Come l’ha trovata?
«Una città da cui si vedono le montagne dal corso principale non può che essere meravigliosa. Molto tranquilla. Certo la nebbia ha un po’ impedito di vedere tutti i dettagli».
Abbiamo perfino un’uva che si chiama Nebbiolo, è proprio parte del nostro Dna! Parliamo invece del clima del suo ultimo libro: il lockdown ha appesantito non poco gli animi…
«Sì. Il romanzo inizia con un senso di pesantezza, ma poi si solleva, come abbiamo fatto noi, d’altra parte. Appena iniziato il lockdown abbiamo patito, poi ci siamo riconciliati con la casa e la famiglia. Chi non aveva problemi pregressi si è da un lato anche goduto questa pausa con le persone amate».
I suoi protagonisti sono vegliardi che stazionano al tavolo del BarLume. È stato impegnativo scegliere personaggi la cui vita di fatto non ha grandi scossoni e portarli avanti per così tanti romanzi?
«Non direi, perché loro sono dei punti di vista fissi. Ed è più facile analizzare cosa succede intorno, le evoluzioni della società e delle esistenze, se si ha come base di partenza voci e occhi sempre fedeli a sé stessi. Ci si accorge dalle loro parole quanto siamo andati avanti. O indietro. L’idea mi è venuta mentre scrivevo la tesi di laurea e avrei voluto invece stare al mare con i miei amici a giocare tutto il giorno a carte. E chi lo fa? Loro, i vecchi. Io ho imparato tanto dagli anziani, perché da bambino venivo spesso parcheggiato a casa di mio nonno e lui mi portava sempre al bar. Mentre lui giocava a biliardo, io stavo in un angolo a imparare ad osservare e a imparare nuove parolacce».
Per questo come set ha scelto un bar?
«Anche. Il bar è un luogo con caratteristiche uniche. La prima è che ci accompagna lungo tutto l’arco della giornata, dalla colazione all’aperitivo. E poi è il posto più democratico d’Italia: ci possono entrare tutti e nessuno è mai fuori luogo. Non importa come tu sia vestito, a differenza di un ristorante. Non si può prenotare. Si passa quando è il proprio turno e quando è finito il cornetto al gianduia, è finito per tutti. Di fronte al barista siamo tutti uguali».
Il bancone poi stimola le chiacchiere tra sconosciuti.
«Esatto, apre discussioni lampo. È sempre stato il Twitter prima che esistesse Twitter. Come nel libro “Bar Sport” di Stefano Benni in cui c’è sempre un “tennico” che la spiega agli altri avventori, sugli argomenti più svariati emettendo il verso del tennico che fa “Guardi, sa cosa le dico?»
Internet ha quindi solo reso il bar accessibile da casa?
«No, ci sono differenze sostanziali. Al bar uno si rende conto se la persona che sta sparando sentenza è un brodo (toscano per incapace, ndr) che sta dicendo stupidaggini. Si capisce dallo sguardo, dalla faccia, dalla mimica. Mentre su Twitter siamo tutti uguali all’inizio e ci vuole tempo; al bar, invece, basta un’occhiata».
Ne parla con nostalgia. Non ci sono più i bar di una volta?
«Il fatto è che ci andiamo meno e non sono più gli unici luoghi neutri in cui scambiare opinioni con degli sconosciuti. Ed è un male. Se per argomentare una tua teoria citi un articolo e siamo al bar io posso chiederti dove lo hai letto. Su Internet va tutto troppo veloce. Se non mi rispondi, non saprò mai nemmeno se non hai letto il mio commento o non ti andava di rispondere. Non è più il dialogo, per breve che fosse, che si accendeva davanti al caffè. Sono, più tristi, monologhi».
Sta già facendo progetti per un’altra avventura dei quattro ex ragazzi?
«Non lo so. Ho pensato seriamente che questo romanzo potesse essere l’ultimo. Ma anche del terzo dicevo lo stesso».