Invece di ammantarsi di incomprensibilità come fa un certo numero (nemmeno tanto esiguo) di artisti, Ugo Nespolo cerca sempre di farsi capire. Lo fa quando scrive di arte, e non di meno quando è interpellato dalla Rivista IDEA, in occasione di un incontro in Granda con protagonista l’artista di fama internazionale e di origine biellese. L’ultimo in ordine di tempo si è tenuto ad Alba, per la presentazione del suo “Per non morire d’arte”.
Maestro, ci ha da poco fatto l’onore di un’altra sua visita, ancora in collaborazione con l’Associazione Culturale Giulio Parusso. Il sodalizio tra lei e il nostro territorio conferma di funzionare bene…
«Assolutamente sì. È un territorio che adoro, penso sempre che dovrei trasferirmici perché trovo che ci sia una qualità di vita molto alta. Poi, magari, vedendola da vicino non sarà così. O forse sì; magari addirittura meglio, chissà… Comunque è un ambiente che mi piace».
“Per non morire d’arte” è il primo tra i suoi libri che viene pubblicato da Einaudi. È un approdo che la gratifica?
«Pubblicare con Einaudi un saggio sulla mia concezione della storia dell’arte è stata una fatica, ma anche un grande privilegio. Tra l’altro per Einaudi sto ridisegnando la collana degli Struzzi».
Mentre la collana che ospita il suo saggio è “Vele”, quella dedicata ai pensatori…
«La mia teoria, ma anche la mia pratica, è proprio questa, ovvero pensare che l’artista non è solo uno che sa muovere la mano. Il mio modo personale di agire, che spero possa essere comune nel mondo dell’arte, si basa sull’idea che gli artisti devono ragionare davvero su quello che stanno facendo, che la teoria deve venire prima della pratica. Quella dell’artista tutto istinto, il quale magari lavora al freddo, in una mansarda, è una sciocchezza letteraria tardo romantica».
D’altra parte ha sempre dimostrato di ragionare tramite i suoi articoli.
«Da 5 anni pubblico periodicamente sul Foglio dei saggi abbastanza lunghi. Scrivere un testo di 15.000 battute per un giornale come il Foglio è un bel lavoro! Dovrò farne una raccolta come già ho fatto in passato quando è uscito “Maledette belle arti”, pubblicato da Skirà. Nei miei pezzi cerco di raccontare quel che vedo, da persona che conosce dall’interno il mondo dell’arte e dunque può passarne in rassegna abitudini, negligenze, scemenze anche. Corrisponde alla mia idea di quello che ogni artista dovrebbe fare riflettendo sul nostro mondo. Ma se devo essere sincero mi pare che non siano in molti a farlo…».
È possibile prevedere se e come la pandemia cambierà il mondo dell’arte?
«Il mondo dell’arte ha subito negli ultimi anni scossoni notevoli soprattutto dal punto di vista commerciale perché l’arte è incentrata sulla vendita, direi quasi il traffico, delle opere d’arte e sui loro costi gonfiati. Inoltre, la pandemia non ha favorito la diffusione della cultura artistica, perché le gallerie sono rimaste chiuse, come pure i musei. Si sono fermati i movimenti, le fiere d’arte internazionali, il Moma ha licenziato 300 persone! È certo un momento critico, di ripensamento. Ma questo era già tutto scritto nel sistema dell’arte, se non ci fosse stata la pandemia sarebbe accaduto lo stesso, perché tale sistema aveva enfatizzato troppo l’idea che ciò che costa vale, cercando sempre di dare il valore più alto possibile alle opere d’arte senza seguire alcun criterio che non sia quello del profitto. Questo ha portato su una china molto ripida, sulla quale stavamo già scivolando. Forse potremo anche scoprire che la pandemia ha fatto bene a un sistema dell’arte dopato. Ma per ora non vedo mutamenti radicali».
Chi è il responsabile della stortura che descrive? Chi vende o chi compra?
«Il sistema dell’arte ormai assomiglia a quello divistico, per certi versi. Pare sufficiente inventarsi un personaggio e usarlo come un elemento di comunicazione fortissima. Il fatto che un coniglietto di metallo come quello di Jeff Koons venga venduto a 86 milioni di euro, significa che Jeff Koons è un grande artista? Non necessariamente. Esagerazioni come questa hanno avvilito il sistema dell’arte. I giovani artisti a cosa mirano? A diventare personaggi che possano essere strumento di case d’asta che giocano sui prezzi, quei 7/8 galleristi al mondo che fanno sostanzialmente le stesse cose. Non tanto a pensare a un sistema dell’arte che produca pensieri nuovi. Vale più l’aspetto esteriore che quello sostanziale».
Pensa ci possa essere o ci sia per la pandemia un’opera d’arte che rappresenti ciò che Guernica ha rappresentato per la guerra civile spagnola?
«Intanto c’è da dire che nel caso della pandemia non parliamo di un episodio storico concluso, è un fenomeno ancora in corso. In ogni caso perché avvenga quel che è avvenuto con Guernica dovremmo pensare che l’arte abbia ancora un valore di natura sociale, di denuncia. Purtroppo mi pare che invece l’arte si sia distaccata totalmente dalla società: è un aspetto collaterale, quasi opzionale. Provi a chiedere alla gente che passa per strada quale ruolo ha l’arte nella loro vita…» .