Tiene banco la Legge di Bilancio 2022, o meglio il disegno di legge. Oltre un mese fa il Governo l’ha approvato ma è in netto ritardo sui tempi, pur tenendo conto delle consuete lungaggini che accompagnano questi momenti. Si tratta della misura economica più importante, quella che prevede come saranno gestite le entrate fiscali e come saranno spesi i circa 30 miliardi messi insieme tra interventi sullo stato sociale, tagli alle tasse e incentivi. Il termine per l’approvazione è stabilito al 31 dicembre, c’è la possibilità che il Governo debba porre la fiducia, dopo la discussione in Senato, quando il testo verrà presentato alla Camera, per non rischiare di dover fare ricorso all’esercizio provvisorio. Per capirne qualcosa di più, abbiamo chiesto un approfondimento a Sebastiano Barisoni, giornalista di Radio 24 che ogni giorno (alle 17) conduce “Focus Economia”.
Barisoni, che succede con la Legge di Bilancio? Perché la solita valanga di emendamenti in un momento in cui ci sarebbe bisogno di muoversi rapidamente per riavviare i meccanismi dell’economia italiana?
«In realtà non è tanto quello del disegno di bilancio ad essere un tema importante in questo momento. D’accordo, ci sono da definire questioni come il cuneo fiscale, ma la vera partita si gioca sul Pnrr e su come sostanzialmente tutto questo si aggancia al Recovery Plan. Mentre una volta l’unica capacità di manovra era affidata proprio alla finanziaria, stavolta il pesce grosso è un altro. Però c’è anche un dettaglio tecnico da sottolineare. L’Italia avrà una crescita superiore alle previsioni, in particolare rispetto a quanto era stato promesso all’Europa. Per questo abbiamo mantenuto il deficit con riferimento alla crescita preventivata, ma siccome cresceremo di più rispetto al Pil (ecco il termine di rapporto), si possono liberare alcune risorse in più. Crescendo di più, puoi spendere maggiormente, mantenendo invariato il rapporto deficit-Pil promesso all’Europa».
Tutto bene, allora?
«La critica che si può fare è: manca una visione strutturale per il superamento del budget ricavato dalle tasse. Vero che è stata rimodulata l’aliquota, ma assume più la forma di un provvedimento spot, una tantum, che non il frutto di una visione complessiva».
Eppure, a giudicare dalle dichiarazioni dei politici, si è discusso molto su come utilizzare i soldi del Recovery Plan. Non è stato sufficiente?
«Si fa presto a rimandare all’esigenza di applicare le riforme chieste dall’Europa. La critica in generale va fatta all’impostazione politica nei confronti di questo tema. Usare il Recovery come la necessità di cogliere un’opportunità non significa sapersi dare degli obiettivi».
Si è fatto un gran parlare della transizione digitale, ad esempio.
«Ci sono quei soldi, ci sono quelli per le infrastrutture e noi andiamo a prenderceli. Ma nessuno si è posto il problema di dire: quali sono gli obiettivi di questo Paese, al di là dell’opportunità che abbiamo e che non possiamo perdere? Quale Paese vogliamo che sia davvero l’Italia da qui a trent’anni? Sarà ancora legata al manifatturiero, per dire, oppure dovrà emergere in altri settori? Una cosa è l’opportunità che ci arriva dall’Europa e un’altra è aver chiari gli obiettivi del futuro economico che si aspetta».
A proposito della Legge di Bilancio, qualcuno dice che il premier Draghi sia indispettito per i soliti ritardi della politica che si ripropongono anche in questa fase particolarmente strategica. È così?
«Il problema del Governo non è legato ai ritardi sulla tabella di marcia, quanto al rispetto delle varie tappe».
Sempre per un problema di visione?
«Sì ma anche il fatto di non avere un’idea del Paese che vogliamo immaginare, non è questione che riguardi Draghi. Lui non è espressione di un partito. È stato messo lì per portare a termine un lavoro, soprattutto per blindare l’esecutività del Recovery ed è su questo che si sta impegnando, oltre che a garantire la non chiusura del Paese durante la pandemia».
Che cosa bisognerebbe fare per assecondare una crescita produttiva nel segno di una qualche visione?
«Assieme al tema energetico sulle rinnovabili, ce ne sono altri. Però torno a dire che se credi nel manifatturiero, per esempio, allora devi investire, agevolare l’aggregazione tra imprese, puntare su patti del territorio, agevolazione fiscale. Tipiche operazioni che deve fare la politica, non un governo tecnico».
Un suggerimento, dunque, alla politica?
«Smetterla con le questioni di piccolo cabotaggio e dire: immaginiamo un’Italia integrata in Europa ma con produzioni nazionali, per esempio. Draghi sta difendendo alcune produzioni nazionali dall’assalto cinese, ma immagino che ci sia molto altro e servono politiche adeguate per un’ampia copertura».
Per il manifatturiero fin qui è stato fatto qualcosa?
«Dal Governo che si è insediato a marzo, direi di no. Bisognerà vedere quale sarà la portata della manovra fiscale su lavoratori e imprese. Mi sarei aspettato un impegno maggiore per favorire le fusioni o per velocizzare la burocrazia, qualche incentivo in più».
Sullo sfondo, la finanziaria. Davvero conta poco?
«Margini di manovra per il famigerato assalto alla diligenza non ci sono. Quest’anno i circa 800 milioni non consentiranno grandi manovre. Certo, si possono fare interventi mirati: magari per l’autotrasporto che è in crisi, per la formazione di neopatentati. Ma nulla più. La partita vera si gioca sul Recovery e sul recupero della tutela di chi perde con l’inflazione».