«Immaginare l’Italia di domani è il compito della vera politica»

L’esperto di economia per Radio 24: «Legge di Bilancio? La partita si gioca sul Pnrr. Ci sono i soldi ma nessuno si è posto il problema di dire: quali sono gli obiettivi? Quale Paese vogliamo che sia davvero l’Italia da qui a trent’anni? Non è questione che riguardi Draghi, lui non è espressione di un partito. È lì per fare altro»

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Tiene banco la Legge di Bilancio 2022, o meglio il disegno di legge. Oltre un me­se fa il Governo l’ha ap­pro­vato ma è in netto ritardo sui tempi, pur tenendo conto delle consuete lungaggini che accompagnano questi mo­men­ti. Si tratta della misura economica più importante, quella che prevede come sa­ranno gestite le entrate fi­scali e come saranno spesi i circa 30 miliardi messi insieme tra interventi sullo stato sociale, tagli alle tasse e incentivi. Il termine per l’approvazione è stabilito al 31 dicembre, c’è la possibilità che il Governo debba porre la fiducia, dopo la discussione in Senato, quando il testo verrà presentato alla Camera, per non rischiare di dover fare ricorso all’esercizio provvisorio. Per capirne qualcosa di più, abbiamo chiesto un approfondimento a Sebastiano Ba­ri­soni, giornalista di Radio 24 che ogni giorno (alle 17) conduce “Focus Economia”.

Barisoni, che succede con la Legge di Bilancio? Perché la solita valanga di emendamenti in un momento in cui ci sarebbe bisogno di muoversi rapidamente per riavviare i meccanismi dell’economia italiana?
«In realtà non è tanto quello del disegno di bilancio ad essere un tema importante in questo momento. D’accordo, ci sono da definire questioni come il cuneo fiscale, ma la vera partita si gioca sul Pnrr e su come sostanzialmente tutto questo si aggancia al Recovery Plan. Mentre una volta l’unica capacità di ma­novra era affidata proprio alla finanziaria, stavolta il pesce grosso è un altro. Però c’è anche un dettaglio tecnico da sottolineare. L’Italia avrà una crescita superiore alle previsioni, in particolare ri­spetto a quanto era stato pro­messo all’Europa. Per questo abbiamo mantenuto il deficit con riferimento alla crescita preventivata, ma siccome cresceremo di più rispetto al Pil (ecco il termine di rapporto), si possono liberare al­cune risorse in più. Cre­scendo di più, puoi spendere maggiormente, mantenendo in­variato il rapporto deficit-Pil promesso all’Eu­ropa».

Tutto bene, allora?
«La critica che si può fare è: manca una visione strutturale per il superamento del budget ricavato dalle tasse. Vero che è stata rimodulata l’aliquota, ma assume più la forma di un provvedimento spot, una tantum, che non il frutto di una visione complessiva».

Eppure, a giudicare dalle di­chiarazioni dei politici, si è discusso molto su come utilizzare i soldi del Recovery Plan. Non è stato sufficiente?
«Si fa presto a rimandare al­l’esigenza di applicare le riforme chieste dall’Europa. La critica in generale va fatta all’impostazione politica nei confronti di questo tema. Usare il Recovery come la necessità di cogliere un’opportunità non significa sapersi dare degli obiettivi».

Si è fatto un gran parlare della transizione digitale, ad esempio.

«Ci sono quei soldi, ci sono quelli per le infrastrutture e noi andiamo a prenderceli. Ma nessuno si è posto il problema di dire: quali sono gli obiettivi di questo Paese, al di là dell’opportunità che abbiamo e che non possiamo perdere? Quale Paese vogliamo che sia davvero l’Italia da qui a trent’anni? Sa­rà ancora legata al manifatturiero, per dire, oppure do­vrà emergere in altri settori? Una cosa è l’opportunità che ci arriva dal­l’Eu­ropa e un’altra è aver chiari gli obiettivi del futuro economico che si aspetta».

A proposito della Legge di Bilancio, qualcuno dice che il premier Draghi sia indispettito per i soliti ritardi della politica che si ripropongono an­che in questa fase particolarmente strategica. È così?
«Il problema del Governo non è legato ai ritardi sulla tabella di marcia, quanto al rispetto delle varie tappe».

Sempre per un problema di visione?
«Sì ma anche il fatto di non avere un’idea del Paese che vo­gliamo immaginare, non è questione che riguardi Dra­ghi. Lui non è espressione di un partito. È stato messo lì per portare a termine un lavoro, soprattutto per blindare l’esecutività del Recovery ed è su questo che si sta impegnando, oltre che a garantire la non chiusura del Paese du­rante la pandemia».

Che cosa bisognerebbe fare per assecondare una crescita produttiva nel segno di una qualche visione?

«Assieme al tema energetico sulle rinnovabili, ce ne sono altri. Però torno a dire che se credi nel manifatturiero, per esempio, allora devi investire, agevolare l’aggregazione tra imprese, puntare su patti del territorio, agevolazione fi­scale. Tipiche operazioni che deve fare la politica, non un governo tecnico».

Un suggerimento, dunque, alla politica?
«Smetterla con le questioni di piccolo cabotaggio e dire: im­maginiamo un’Italia integrata in Europa ma con produzioni nazionali, per esempio. Dra­ghi sta difendendo alcune produzioni nazionali dall’assalto cinese, ma immagino che ci sia molto altro e servono politiche adeguate per un’ampia copertura».

Per il manifatturiero fin qui è stato fatto qualcosa?
«Dal Governo che si è insediato a marzo, direi di no. Bi­so­gnerà vedere quale sarà la portata della manovra fiscale su lavoratori e imprese. Mi sa­rei aspettato un impegno maggiore per favorire le fusioni o per velocizzare la burocrazia, qualche incentivo in più».

Sullo sfondo, la finanziaria. Dav­vero conta poco?

«Margini di manovra per il fa­migerato assalto alla diligenza non ci sono. Quest’anno i circa 800 milioni non consentiranno grandi manovre. Cer­to, si possono fare interventi mirati: magari per l’autotrasporto che è in crisi, per la for­ma­zione di neopatentati. Ma nul­la più. La partita vera si gioca sul Re­co­very e sul recupero della tutela di chi perde con l’inflazione».