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«Socialità a rischio ciascuno agisca da protagonista»

Al Campus di Cuneo monsignor Dario Edoardo Viganò ha posto l’accento pure sull’imprenditoria responsabile

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Lectio magistralis di assoluto valore, per la caratura del relatore e per la rilevanza dei temi approfonditi, l’altro giorno a Cuneo, presso il Campus di Management ed Economia dell’Università di Torino. Grande ospite del­l’appuntamento monsignor Dario Edoardo Viganò, vicecancelliere della Pon­ti­fi­cia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze So­cia­li, dal 2015 al 2018 prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede. La Rivista IDEA lo ha intervistato.

Monsignor Viganò, quali strategie comunicative guidano la Santa Sede?

«La Chiesa, come del resto tutte le altre grandi istituzioni, ha sempre ricercato le strategie comunicative più performanti e adeguate. E lo ha fatto con quella che io chiamo “doppia pedagogia”: cioè, da un lato, salutava le nuove tecniche della comunicazione con entusiasmo, dall’altro, consapevole dell’uso distorto che se ne sarebbe potuto fare, procedeva con richiami morali. Tale atteggiamento era frutto di una visione sui media che li intendeva come strumenti neutri, facendo sì che assumessero un’accezione positiva, o anche negativa, in base all’utilizzo».

Cos’è cambiato con l’evoluzione digitale dei mezzi di comunicazione?

«Papa Francesco, che in qualche modo si inserisce nel filone di pensiero tradizionale, ha introdotto, a partire dal 2015, prima con un discorso tenuto alla Pontificia Accademia per la Vita e poi attraverso diversi scritti come l’enciclica “Fratelli tutti”, una prospettiva un po’ diversa. In particolare, ha affermato con forza che i media non sono neutri, anzi modificano le relazioni, determinando di conseguenza un impatto antropologico rilevante. Da qui si sono sviluppate diverse considerazioni che hanno influenzato la comunicazione della Chiesa stessa».

Ritiene adeguato il linguaggio comunicativo usato oggi dalla Chiesa?

«Sei anni fa è stato avviato un processo di riforma, inderogabile, per rispondere efficacemente ai cambiamenti avvenuti nel mondo digitale. Oggi occorre un ulteriore aggiustamento che tenga conto dei modelli di comunicazione e di business introdotti dagli “over the top” (le imprese, come Amazon, Facebook e Google, che forniscono, attraverso Internet, servizi, contenuti e applicazioni caratterizzati da annunci pubblicitari con elementi multimediali interattivi, nda). In concreto, significa tenere conto che nella “convergenza digitale” in atto l’audiovisivo rimane centrale e che i social media vanno presi in grande considerazione».

A proposito, il Papa ha un grande seguito sui social. È un segnale incoraggiante per il futuro della Chiesa?

«Occorre estrema prudenza perché lasciare un “like” a un post sui social non equivale ad aderire a un gruppo in parrocchia. Come ha più volte evidenziato papa Francesco, essere “connessi” non significa automaticamente essere comunità. Per la Chiesa, le strategie comunicative sono necessarie, così come è indispensabile impiegare un linguaggio adeguato, ma l’incontro tra le persone deve restare prioritario. Questo perché la fede non è un’adesione a un’ideologia, ma essere contagiati da una testimonianza, che è fatta di carne, passione, intelligenza».

A Cuneo ha incontrato i manager del futuro. A quali principi devono ispirarsi per fare la differenza?
«Uno dei più grandi patrimoni di pensiero ecclesiale è la Dottrina Sociale del­la Chiesa che, credo, sia un’utile ri­flessione per i manager di oggi e di do­mani. In ambito lavorativo, ciò si concretizza, ad esempio, nell’inclusività. Il valore più grande di un’impresa non è più il profitto, ma sono i valori stessi e, tra questi, la comunità dei lavoratori: la risorsa umana è in assoluto il bene patrimoniale più im­portante. Un imprenditore sarà tanto più importante, capace e bravo quanto più saprà valorizzare il patrimonio umano».

Il Cuneese, con le sue imprese responsabili, è sicuramente un modello imprenditoriale virtuoso, non crede?

«Sì, in questa terra ci sono i buoni esempi di tante aziende il cui valore non è racchiuso solo nei numeri di bilancio, ma proprio nel valore che viene dato alla comunità di lavoratori e al territorio».

In conclusione, come si deve affrontare questo futuro molto incerto?

«Con la pandemia ci siamo accorti che i grandi drammi non si vedono soltanto dallo specchietto retrovisore. Oggi, seppure le città non siano devastate dalla guerra, c’è una socialità distrutta dalla pandemia, che ha spezzato famiglie, legami, economia. E allora penso al film “Roma città aperta”: nel finale, prima della tremenda esecuzione, c’è un “pretino” che, con retorica classica, prova a consolare don Pietro, destinato alla fucilazione, il quale però risponde: “Non è difficile morire bene, difficile è vivere bene”. Dobbiamo tutti assumere un ruolo da protagonista perché la nostra vita sia bella e perché nella vita bella si possa fare del bene».